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E se di great ci fosse l’attraction?

Da due anni non si fa che parlare di abbandono di posti di lavoro, di migrazioni di massa, di grandi ripensamenti e di quiet quitting. Da due anni non si fa che parlare di malessere, di motivazioni psicologiche che soggiacciono all’abbandono e sono tutti argomenti interessanti ma troppo poco spesso vedo le persone farsi le domande fondamentali.

La situazione

Siamo in un periodo di piena occupazione. Il personale non si trova non perché non ci sia ma perché è già occupato. Diventano quindi fondamentali le azioni di retention (basata sull’engagement) e attraction. Rimaniamo per un attimo sulla prima azione, la retention. Le aziende non intendono rinunciare alle loro persone in un momento in cui la domanda supera l’offerta, quindi cercano di trattenere i dipendenti a colpi di aumenti di stipendio, bonus e benefit scoprendo, spesso troppo tardi, che questo non è sufficiente a trattenerli. Di fronte a questa situazione, se mi venisse chiesto un parere su cosa fare, suggerirei di rispondere ad alcune domande.

  1. Se le persone vengono incentivate economicamente a rimanere, per quale motivo se ne vanno?
  2. Qual è la dimensione dell’incentivo economico che non funziona?
  3. Qual è il prossimo passo da fare per trattenere le persone?

La risposta alla domanda numero 1 è abbastanza facile: l’incentivo economico non funziona perché …non funziona. Sembra una risposta lapalissiana ma così non è. Se ci pensiamo, l’incentivo economico è una risposta fredda ad una richiesta dettata dall’emotività, le persone invece chiedono di essere riconosciute nella loro umanità, magari anche nella loro unicità. Con l’incentivo economico le imprese offrono una fredda ricompensa economica senza sforzarsi di creare legami con le persone. Il risultato è che i dipendenti percepiscono una fredda e distaccata transazione economica invece di un rapporto umano.

La risposta alla domanda numero 2 l’abbiamo anticipata. In molti sono usciti dalla pandemia con una visione diversa che ha impattato sul modo di concepire la vita e soprattutto il lavoro. Non conosco nessuno a cui danno fastidio i soldi e i benefit ma le persone vogliono altro, vogliono essere riconosciute dall’organizzazione, vogliono che le persone li riconoscano come individui e non come numeri, vogliono essere apprezzati per le loro competenze. Vogliono un contatto umano caldo, emotivo e dalle forti connotazioni psicosociali e invece ricevono una fredda proposta economica.

Da great attrition a great attraction

engagementAlla domanda numero 3 si risponde di conseguenza. Se le persone non trovano riscontri psicologici nella relazione con l’azienda e ritengono banalizzante la trattativa economica, va da sé che cercheranno soddisfazione altrove. Questo “altrove” ha mille sfumature: forme di lavoro diverse da quello dipendente, impieghi presso competitor, magari si fanno attrarre dal miraggio di un posto migliore e poi rimangono delusi (nasce il grande ripensamento e il quiet quitting) e il gioco ricomincia. Spesso c’è una fuga per un cercare un luogo migliore che però non si trova, una condizione che ha due sviluppi principali: un’altra migrazione in altro luogo con la speranza che sia migliore del precedente o la rassegnazione. Più che una great resignation sembra che ci sia un great attrition (fonte McKinsey).

Iniziamo quindi a porci una serie di domande una tra tutte: qual è lo strumento di engagement che non ho ancora provato e che potrebbe servire a trattenere le mie persone? Ecco, questo sarebbe un bel punto di partenza per iniziare a ragionare su quelli che sono gli strumenti più efficaci di engagement del personale con la consapevolezza che le risposte mi porteranno ad una faticosa corsa ad ostacoli prima di arrivare ad un cammino riposante.

Facciamoci qualche domanda.

Qual è il modo di trasformare l’attrito in attrazione? Abbiamo visto che una politica basata su incentivi economici non è sufficiente. Non esiste una risposta univoca ma esistono molte risposte che possono andare bene e tutte basate sugli aspetti psicologici delle persone. Siccome si parla di persone, non facciamo il classico errore di non coinvolgerle e di calare dall’alto le soluzioni. Spesso manca questo fondamentale passaggio, un colloquio o un’indagine che mostri e dimostri quale siano i desiderata delle persone perché ad intervenire sul gruppo perché “per me è giusto così” si rischia di fare più danno che beneficio.

Il nostro ambiente di lavoro è transazionale? Se spero di aumentare l’engagement e come unica risposta aumento lo stipendio si sta creando, spesso inconsapevolmente, che il rapporto con le persone che lavorano con noi è di tipo transazionale ovvero che la l’unica ragione che hanno per stare in azienda è uno stipendio. Il fatto è che, per quanto un’azienda possa essere ricca e offrire un ottimo stipendio ce ne sarà sempre un’altra che offrirà di più. Ritorna la necessità di prendersi a cuore delle proprie persone e delle loro problematiche, del loro benessere nell’accezione più estesa.

Come stiamo costruendo un senso di comunità? Così come non è vero che stare ogni giorno insieme al lavoro crea automaticamente una comunità di persone, così non è vero che lo smart working distrugge i rapporti personali con i colleghi. La comunità si crea nel momento in cui la pluralità dei membri si prende cura del singolo e quando il vertice si prende cura degli altri. C’è l’attenzione nei confronti delle necessità del singolo? Perché se le attenzioni non ci sono o se si presume che dare attenzione significhi concedere benefit, come abbiamo detto, la comunità non si crea ma si sgretola. Un esempio tra tutti potrebbe essere quello dello smart working, un dibattito che ha animato LinkedIn negli anni della pandemia e nei mesi post pandemia e che vedeva schierati da una parte i fautori del lavoro da remoto e i contro a prescindere. Una faida a suon di post che non vedeva né vincitori né vinti, una baruffa in cui spesso si pensava a giustificare la propria posizione senza pensare che ci sono una quantità di sfumature che questi schieramenti non prendevano in considerazione ma che agevolavano la creazione di una comunità. Il “siamo un’azienda all’avanguardia perché concediamo tre giorni di smart working a tutti” non è essere all’avanguardia e non è fare comunità perché in questo modo non si tiene conto del desiderio di stare in ufficio che in molti sembrano avere e contemporaneamente non si considera che alcune categorie di persone hanno la necessità di avere un maggior numero di giorni di lavoro a distanza. Prendere in considerazione i desideri del singolo costituisce le fondamenta della costruzione di una comunità. Viene quindi subito da chiedersi: i vantaggi che offriamo sono allineati con le richieste dei nostri collaboratori? O più semplicemente: sto ascoltando i collaboratori?

Possiamo fornire percorsi di carriera e opportunità di sviluppo? I dipendenti sono alla ricerca di lavori che consentono percorsi di carriera migliori e più solidi. Desiderano sia il riconoscimento sia lo sviluppo. Le aziende preparate trovano il modo di premiare le persone promuovendole non solo a nuovi ruoli, ma anche a livelli diversi di responsabilità o di responsabilizzazione. Questo è un modo in cui le aziende possono premiare e riconoscere più rapidamente le persone.

In conclusione.

Mentre fai il punto, poniti le seguenti domande: stiamo coltivando una cultura aziendale? In che modo posso allontanare chi non coinvolge veramente le persone prima che le persone si allontanino da me? Abbiamo le persone giuste nei posti giusti? Diventa quindi fondamentale svolgere un’analisi dell’azienda e delle persone che in essa svolge il proprio lavoro. Ne seguiranno sicuramente un’azione formativa, soprattutto lo sviluppo delle soft skill, affinché chi si occupa di persone (dal capo squadra al dirigente) superi l’inutile ruolo del capo e l’obsoleta definizione di leader per arrivare a ricoprire la figura del mentor-coach, una persona che accompagna le altre persone lungo il sentiero tracciato dalla mission aziendale con il desiderio di sviluppare e portare avanti insieme la cultura aziendale human oriented. La nuova figura del mentor-coach ora diventa indispensabile per diffondere la cultura aziendale ma anche per supportare le persone che con lui/lei si confrontano quotidianamente.

Il lavoro dell’HR è quello di proporre alternative, verificare possibilità, ma soprattutto ascoltare le persone, interpretarne i desideri e coinvolgere l’azienda in progetti di valorizzazione, nella costruzione di relazioni raccontando la storia dell’azienda per avere una comunità che ascolta e risponde ai bisogni più profondi delle persone.

Piero Vigutto
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