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Engagement che manca e che spiega il quiet quitting e tutto il resto

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Dopo la great resignation, il grande ripensamento e il grande rimescolamento, ora va in onda il quiet quitting. Sinceramente credo che questo desiderio di spiegare il mondo del lavoro abbia preso la mano dei giornalisti che ci hanno visto più l’articolo sensazionalistico che la ricerca di una verità comprovabile. Ho scritto questo articolo trovando molti spinti e nei fatti descritti ordinatamente nell’articolo di Matteo Carlos Marrattini “La great resignation. Verso un nuovo umanesimo del lavoro” e che ho voluto pubblicare su questo blog. Ma andiamo per gradi.

Il desiderio di dare un nome ad ogni cosa non è sbagliato, i fenomeni vanno denominati e spiegati altrimenti, pur esistendo, non sono comprensibili. Tuttavia da qualche tempo si eccede e si scade nel sensazionalismo inserendo l’aggettivo “grande” di fronte a tutto quanto: grandi dimissioni, grande rimescolamento, grande qualunque cosa riguardi il mondo del lavoro che negli ultimi anni ha subito un esame autoptico ma su corpo vivo, spesso eseguito da macellai più che da chirurghi, con la conseguenza che molti fenomeni già esistenti sono stati classificati come mali incurabili o estremamente dannosi pur essendo poco più che manifestazioni più estese di scontata normalità (che però non fa notizia).

Fortunatamente ci si ridimensiona di fronte al nuovo fenomeno, il quiet quitting, che cede l’aggettivo “grande” a beneficio di uno più modesto, quasi dimesso “quiet” (tranquillo). Il quiet quitting possiamo tradurlo con “lasciare tranquillamente” o con il più casereccio “faccio il mio”. In pratica, chi non è passato dalle grandi dimissioni, chi il grande rimescolamento non lo ha proprio sentito, potrebbe essere colpito dal quiet quitting che è quella “tendenza ad auto-ridimensionarsi sul posto di lavoro per fare esattamente quello che viene richiesto dal contratto, eseguendo le mansioni previste al proprio meglio senza però mai andare oltre” (cit. Cosmopolitan).

Non voglio distruggere i sogni di gloria di qualche giornalista né tantomeno banalizzare l’argomento, ma credo che l’anamnesi dell’argomento lavoro abbia preso una strada a dir poco distorta. Facciamo il punto:

Great resignation: grande licenziamento. Trattasi di un fenomeno esistente (il licenziamento) che ha assunto dimensioni di una certa rilevanza (grande). Pare una cosa strana? Sinceramente no. Abbiamo vissuto un periodo di grande stress, la pandemia, che ha influenzato sia la percezione del proprio lavoro sia quella  del vissuto personale. Chiusi in casa per mesi abbiamo maturato tutti il desiderio di libertà e di cambiamento. Un cambiamento che non potevamo avere, soprattutto dal punto di vista lavorativo perché l’incertezza regnava ovunque: quante aziende si arrischiavano ad assumere senza sapere se e quando avrebbero potuto riaprire? Quante persone si arrischiavano a cambiare lavoro lasciando l’agognato tempo indeterminato per un salto nel buio? Poche, pochissime. Ne consegue una stagnazione della domanda e dell’offerta in periodo pandemico che esplode poi quando il peggio sembra essere passato. Credo che tutto questo non abbia nulla di fenomenale e molto di occasionale.

Il grande rimescolamento: compreso che il fenomeno della great resignation non aveva alcunché di fenomenale lo si descrive ora in un’altra maniera. Il grande rimescolamento ovvero “passo da un posto di lavoro ad un altro” che, a parer mio, ridimensiona il fenomeno da eccezionale e normale. Solo i più romantici hanno pensato che chi si licenziava andava a vivere nel bosco per vivere di quello che trovava oppure nel borgo senza connessione internet. Era ovvio invece che chi si licenziava sarebbe passato da un posto di lavoro ad un altro e personalmente non ci vedo nulla di fenomenale. Ritornati alla calma, ridimensionati i fenomeni, resta il problema di cosa scrivere sui giornali e il mondo del lavoro fa sempre notizia soprattutto se lo vivisezioni. Nasce il quiet quitting.

Grande ripensamento: al liberi tutti in molti hanno dato sfogo al desiderio di libertà che si è concretizzato in un cambiamento, come abbiamo detto. Le motivazioni di tutto questo ci sono state suggerite dalle ricerche e riguardano la consapevolezza, maturata durante il periodo di clausura o di forti restrizioni, che “l’erba del vicino è sempre più verde” e quindi, chi ha potuto, ha fatto il salto ed ha cambiato lavoro dando origine al fenomeno (?) della great resignation. Tuttavia sembra che un quarto di chi ha cambiato non rifarebbe la stessa scelta. Da psicologo comprendo che una decisione presa durante uno stato di forte stress emotivo si riveli poi fallimentare, è normale, tutte le decisioni prese in condizione di forte stress emotivo (dato dalla clausura e dalle forti restrizioni alla libertà persone) portano con sé dei bias piuttosto corposi che inquinano il pensiero logico. Non stupisce che una parte di chi si è lanciato nel cambiamento si sia pentito amaramente, anche perché l’erba del vicino sembra più bella finché non ti tocca tagliarla, curarla e concimarla. Capito che la great resignation è un non fenomeno, capito che in molti si sono pentiti, resta il problema di come spiegare certe situazioni e nasce il banale nel banale: il quiet quitting.

Quiet quitting: come lo abbiamo già tradotto “faccio il mio”. Un fenomeno? Davvero lo considerate un fenomeno? Scusate, ma sono vent’anni che giro per le aziende e mi dite che solo io ho visto persone che “fanno il loro” e alle 17 gli cade la penna dalla mano? Che non fanno nulla di più di quello che gli viene detto? Che solo io ho avuto il/la collega che faceva il minimo indispensabile? Che il massimo della proattività riguardava la cena di fine anno o la coppa di calcetto aziendale? Non ditemi che sono solo io, non ditemi che sono l’unico perché mi considererei parecchio sfortunato. Ah, attenzione! Non sto dicendo che i dipendenti sono tutti così, anzi sono una minima parte quelli che fanno il minimo indispensabile e non li biasimo neppure, sto dicendo che il quiet quitting non è un fenomeno. Fare il proprio lavoro senza uscire dagli obblighi della propria mansione non è mica un dramma se il lavoro è fatto a regola d’arte, corrisponde alla mansione e agli obiettivi che devono essere raggiunti, poi lo vogliamo chiamare quiet quitting? Va bene, chiamiamolo quiet quitting ma non dipingiamolo come un fenomeno. E’ sempre esistita e sempre esisterà una piccola parte di persone che “fanno il loro” perché il lavoro è la fonte dei denari con cui si pagano i piaceri della vita. Vogliamo darne evidenza sui giornali? Va bene ma credo che questa cosa si sgonfierà come la great resignation.

C’è però un argomento che, con tutti questi fenomeni, è passato in secondo piano ed è quello che invece trasversalmente li spiega tutti: l’engagement. Che si parli di grandi licenziamenti o rimescolamenti, di grandi delusioni o di quiet quitting l’engagement è fattor comune e di comune c’ha che manca in tutte le situazioni che sono state descritte. Se è vero che la great resignation è dovuta alla ricerca di luoghi migliori in cui lavorare, manca engagement. Se è vero che c’è un rimescolamento ma ad esso segue una discreta percentuale di delusi, manca engagement. Se c’è il quiet quitting, manca indiscutibilmente l’engagement, perché se ci fosse questi fenomeni non avrebbero nulla di grande e verrebbero derubricati ad occasionali episodi che non farebbero notizia. Non voglio qui banalizzare né dare un’unica spiegazione ad un sistema complesso come quello del lavoro, dei valori o dei disvalori insiti in esso, delle condizioni emotive che inevitabilmente alcune scelte portano porta con sé, ma pare abbastanza chiaro che se le persone sono prese dalla disperazione e se ne vanno, un motivo ci deve essere. Se a questo aggiungiamo il fatto che una volta cambiato si pentono pure, allora c’è qualcosa che non funziona a livello trasversale. Il titolo di giornale non spiega, e spesso non lo fa neppure l’articolo, l’implicazione psicologica che soggiace a queste scelte. Una dimensione importante a cui poco si pensa ma che è inevitabilmente pregnante nella vita del lavoratore e, soprattutto, dell’azienda. Collaboratore – Azienda sono elementi imprescindibili, un setting psicologico con mille sfumature dove le manifestazioni (licenziamenti, ripensamenti, “fare il mio”) sono solo la manifestazione finale di una condizione emotiva maturata nel tempo. Ci vuole quindi la giusta leva, o ne teniamo conto o diventa difficile interagire, agire ma soprattutto prevenire certe situazioni. Puntare su progetti di engagement è l’unico modo per fidelizzare il personale per evitare di essere coinvolti in eventi che non riusciamo a controllare.

Piero Vigutto
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