Luca Furfaro è un consulente del lavoro iscritto all’Ordine dei consulenti del lavoro di Torino, laureato in scienze politiche all’Università degli studi di Torino, partecipa a convegni in materia giuslavoristica e scrive per alcune testate specializzate in materia lavoro. Appassionato di nuove tecnologie ha uno sguardo sempre attento sul futuro del lavoro e sugli sviluppi economici che la quarta rivoluzione industriale ha e potrebbe avere sul monde del lavoro.

Cos’è per lei la Gig Economy?
Io credo che la Gig Economy abbia due volti: uno più attuale di cui parlano tutti, che riguarda quei lavoretti che la nuova economia ci ha portato a dover gestire in maniera diversa da un tempo; generalmente lavoretti svolti da personale poco qualificato e molto spesso sottopagato. Foodora, Deliveroo e gli altri hanno fatto scuola in questo senso, intercettando quella fascia di lavoratori che necessitano di piccole occupazioni non vincolanti per portare avanti altri interessi. Ora, anche se in modo socialmente discutibile, stanno creando economia. Vedo però un’altra fascia di lavoratori che potranno sfruttare la Gig Economy, una fascia composta da persone iper specializzate e questa potrebbe essere un’evoluzione degli strumenti che vengono utilizzati oggi. Credo che in un prossimo futuro le aziende avranno bisogno di personale altamente specializzato per svolgere lavori fortemente qualificati e per un brevissimo tempo. Molte imprese non potranno permettersi di avere questi specialisti in house e quindi cercheranno di reclutare sul mercato professionisti in base alle loro necessità. Questa sarà, a mio parere, una evoluzione della Gig Economy attuale.
Questo modo di vedere il lavoro travalica i confini fisici di un Paese e ci proietta sempre di più in un contesto globalizzato.
Sì, certo. Pensiamo ad uno sviluppatore di software ma lo stesso vale per qualunque altra professione che si può svolgere in remoto, è ininfluente che sia in India, in Sud America o in Italia. A fare la differenza sarà la specializzazione e quindi a pesare nella scelta non sarà la provenienza geografica bensì le specializzazioni legate alla formazione e l’educazione scolastica ricevuta. È quindi inevitabile che anche gli atenei e le scuole riceveranno un rating per la valutazione delle competenze che offrono ai propri studenti. Visto in questo modo le eccellenze dal punto di vista formativo daranno una maggiore possibilità di collocazione. La New Economy offrirà quindi gli strumenti per renderci ancor più cittadini del mondo e per sfruttare al meglio le competenze che possediamo.
Quindi sempre più formazione e sempre migliore?
Sì, in un mondo che cambia così velocemente da tutti i punti di vista, è inevitabile ed essenziale fare formazione, ma soprattutto essere aggiornati nel proprio settore e questo è valido per tutti. Il mondo non si dividerà più tra Nord e Sud ma tra chi ha le competenze e chi non le possiede. Anche il fattore economico non sarà più la componente che per molto tempo ha limitato l’accesso alla cultura perché internet ci permette già di rimanere aggiornati su qualunque cosa in qualunque momento. In un mondo in cui l’avvento di robot e algoritmi potranno diminuire l’occupazione la differenza sarà il valore che li mercato darà alle conoscenze.
Una concorrenza globale sempre più spietata sulla base del sapere non porterà ad una guerra dei prezzi?
Non credo, anzi, penso che accadrà proprio il contrario ed andremo verso un’armonizzazione delle tariffe proprio perché la concorrenza sarà su base globale, anche se dovrà esserci una guida che possa indirizzare questo processo. È chiaro che questo avverrà con il tempo e con un ritmo diverso per le diverse aree geografiche. I paesi del sud del mondo partiranno con un handicap e quindi verranno distanziati, questo del resto accade in ogni settore da anni, anzi da decenni. I Paesi sottosviluppati hanno problematiche da risolvere che noi non abbiamo. Noi parliamo della disruptive economy causata dai robot mentre loro hanno il problema della scarsità delle fonti di acqua, è chiaro che ci sarà un gap nello sviluppo ma il bello della rete è che una volta che vi accedi la tua idea e le tue competenze non hanno confini, poter attingere culture diverse potrebbe aprire porte a cui noi ora neppure pensiamo e dalle quali anche noi abitanti dei Paesi sviluppati potremmo trovare giovamento. Per questo motivo il nostro benessere dovrebbe andare ad avvantaggiare anche i paesi meno sviluppati.
Che aspetto avrà la nostra società in un prossimo futuro?
Quando c’è una forte rivoluzione industriale e tecnologica c’è sempre una grande paura di fondo soprattutto quando si affrontano problematiche sociali come quella dell’occupazione. Proviamo a pensare alla prima rivoluzione industriale quando le macchine hanno iniziato a svolgere il lavoro manuale, ora sarà l’”algoritmo” a prendere il posto di quello intellettuale. Possiamo affrontare questa condizione in due modi, o come i luddisti che si accanivano contro i telai per distruggerli oppure in maniera costruttiva. La tecnologia può portare un notevole benessere organizzativo contribuendo, ad esempio, a diminuire le ore lavorate perché c’è una maggiore interconnessione tra fattori umani e non umani. I nostri padri lavoravano 12 ore, noi ne lavoriamo 8, forse i nostri figli avranno la possibilità di lavorarne solo 4 e di dedicare il resto della giornata al proprio benessere. Chi lo sa?
È chiaro che questo tipo di discorso può spaventare.
Spaventa perché il cambiamento è repentino e non siamo abituati a ragionare in maniera responsiva, tanto per usare un termine più vicino all’Information Technology. È chiaro che molti lavori scompariranno, è altrettanto chiaro che alcuni lavori verranno creati dalla New Economy. Possiamo però fare anche un’altra analisi e pensiamo per un attimo al fatto che il nostro Paese sta invecchiando e l’età che si innalza porta inevitabilmente con sé tutte le problematiche del caso. Serviranno strutture che offrano servizi adeguati ma anche un contatto umano che vada oltre il monitoraggio dei dati biometrici e per ora queste mansioni non sono delegabili alle macchine.
Stiamo parlando di una trasformazione sociale.
Sì, molto profonda e molto più veloce di quelle precedenti. Sappiamo che ci sono sperimentazioni per l’inserimento di ausili tecnologici in tutti i settori lavorativi che tra qualche anno diventeranno realtà. Questi sono cambiamenti impatteranno su una fetta considerevole della popolazione e con cui dobbiamo fare i conti ora. Le istituzioni hanno e avranno la grande responsabilità di guidare questa rivoluzione in modo che la tecnologia impatti in maniera costruttiva sulla società e positiva sul benessere delle persone. Comprendere che in alcuni settori ci sarà una progressiva eliminazione di posti di lavoro è una previsione semplice, prevedere quali invece verranno creati è molto più difficile. A Torino c’è stato l’anno scorso si è concluso il primo corso di laurea in Data Scientist la prima formazione universitaria dedicata a questa figura. Dieci anni fa non c’erano le App e non sapevamo cosa sarebbe successo con i big data, oggi creano posti di lavoro. Il limite dell’essere umano è che non può prevedere il futuro, possiamo solo prepararci al meglio prendendo oggi le giuste decisioni.
Sappiamo che l’information technology non è un mondo che affascina tutti. Ancora oggi c’è chi non ha un PC o una mail e a stento usa lo smart phone. Chi è lontano da mondo digitale verrà quindi escluso?
Non credo. La cultura avrà sempre più valore fondamentale proprio per quello che ci siamo detti prima. Il mondo non avrà solamente bisogno di tecnici ma anche di persone con una cultura non tecnica anche solo riflettano sulle implicazioni che le nuove tecnologie porteranno con sé. Noi oggi parliamo di guida autonoma, di biometria, di data analytics ma questo non trascende le implicazioni sociali, etiche e legali. Se le macchine inizieranno a decidere si apriranno una serie di tematiche molto importanti su cui rifletteranno filosofi, sociologi e psicologi non certo il tecnico iper specializzato. Per un certo verso ci sarà anche il ritorno ad un lavoro tradizionale, unicamente umano che le macchine non potranno svolgere perché non hanno la creatività che possediamo noi, penso ad esempio alla creazione di contenuti, ai rapporti umani, alla parte non tecnica della cura degli altri che per ora le macchine non possono fare.
L’Italia è spesso considerata il fanalino di coda. Qual è il rapporto che il Bel Paese ha con le nuove tecnologie?
Non sono convinto che l’Italia sia il fanalino di coda in nessun settore. Nel nostro Paese abbiamo tante eccellenze che ci hanno dato e continuano a darci lustro nel mondo sia dal punto di vista tecnico sia intellettuale. Mi viene in mente l’Olivetti che viene studiata come modello anche nella Silicon Valley e da cui Apple ha preso alcuni spunti. Credo però che molte delle attività svolte sul territorio siano poco conosciute e che potrebbero dare un forte sviluppo all’economia digitale o che ad essa si potrebbero collegare. Il made in Italy all’estero è ancora uno dei marchi molto apprezzati perché associato all’alta qualità e che per noi potrebbero costituire un volano di indiscutibile vantaggio. Essere sinonimo di qualità per noi sarà un vantaggio ancora maggiore in un mondo che ricercherà sempre di più la qualità in ogni settore.
L’IOT è sempre più presente nelle nostre vite. Quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi?
Siamo sempre più connessi, sempre più dati vengono condivisi, la possibilità di analizzarli prevede che vengano risolte importanti questioni sulla privacy perché, anche alla luce della nuova normativa europea, devono essere gestiti in maniera corretta. Questo è un argomento che nei prossimi anni avrà un forte impatto sul mondo del lavoro, si pensi solamente alla questione del braccialetto dei dipendenti Amazon di cui si è parlato molto anche se non sempre in maniera corretta. Ci sono moltissimi progetti finanziati con il piano dell’Industria 4.0 volti a misurare i movimenti dei dipendenti con lo scopo di minimizzare lo spreco di tempo e a migliorare le performance. La verità è che, soprattutto nel mondo del lavoro, siamo legati troppo a vecchi concetti. Pensi che solo recentemente è stato modificato l’articolo 4 dello Statuto Lavoratori, una legge del 1970 per nulla adeguata al mondo di oggi che parlava di video controllo del lavoratore mentre ora siamo nel pieno della quarta rivoluzione industriale. Purtroppo, la normativa non recepisce velocemente i cambiamenti, anche se cerca di riconcorrere la tecnologia è sempre un passo indietro.