Che la gestione dello stress e della pressione lavorativa sia importante per la salubrità delle relazioni è ormai assodato. Le tensioni trovano sfogo nei conflitti piccoli o grandi che si ingenerano durante le relazioni, qualunque tipo di relazione. Recentemente ho ascoltato quello che diceva uno dei fantomatici coach che girano sui social: “se vuoi essere un bravo capo, impara ad eliminare i conflitti con la comunicazione assertiva”. Traduzione: impara a dare ordini e a nascondere i problemi così vivi tranquillo… e fai scappare le persone. Un grandissimo consiglio, complimenti.
La gestione delle persone è sempre una questione complessa. E’ controproducente trovasi sotto pressione sul lungo periodo, sia per quelli che la subiscono che per quelli che la generano. Non meno coinvolti sono coloro che si trovano nel mezzo. La pressione mi butta giù / Ti schiaccia, nessuno lo vorrebbe / Sotto la pressione / Che riduce in cenere un palazzo / Divide una famiglia in due / Getta le persone sul lastrico è la pria strofa di Under pressure cantata dai Queen e dal Duca Bianco. Quasi una preconizzazione dell’effetto corridoio e dello straining che emergeranno dalle ricerche psicologiche sui gruppi di lavoro anni dopo la morte del cantante Freddie Mercury.
Analizzando i sintomi che portano a queste patologie c’è sempre lo stress. La disanima delle fonti dello stress attraverso un’analisi che va oltre la superficie, fa emergere una mancanza: una corretta comunicazione. Certo molti vorrebbero abbandonare la lettura qui perché “di corsi di comunicazione ne ho fatti a bizzeffe e sono serviti a poco”. Certo che sono serviti a poco se avete frequentato i corsi dei sedicenti (para)guru come quello che ho citato nell’incipit, se avete seguito quel tipo di indicazioni ritenetevi fortunati a non aver fatto danni. Tengo a precisare che non sto per vendere nulla, nessun corso, nessuna consulenza, nessun segreto. Sto solo per fare qualche considerazione partendo dalla domanda: vi hanno mai spiegato dove la comunicazione fallisce più spesso? Sì perché i summenzionati esperti spesso parlano di “comunicazione assertiva” (leggi manipolazione) e mai di feedback di ascolto attivo.
Tempo fa sono intervenuto in un’azienda per un percorso sulla gestione dei gruppi di lavoro. Tra i presenti era rappresentata anche la direzione, da questo punto di vista illuminata, che voleva mettersi in gioco alla pari del personale. Dall’analisi della gestione del tempo è subito emerso chiaramente come il flusso di lavoro avesse tempi dilatati nelle fasi iniziali mentre si comprimeva nelle fasi finali, diventando fonte di ansia e di nervosismo. Nulla da dire, un classico della gestione del flusso di lavoro che se non viene ben gestito si concentra in maniera pressante nelle fasi di esecuzione. Risultato: si corre.
Durante gli incontri la direzione è parsa consapevole delle ristrettezze temporali in cui lasciava la produzione e il collaudo delle macchine ma giustificava le proprie scelte con “i tempi li gestisce il cliente”. Sarà sicuramente vero ma la pressione non veniva dal cliente ma dalla mancanza di ascolto. Dare la colpa al cliente significa dire “lo so ma non mi interessa” oppure “non posso farci niente” e quindi “non sono io che gestisco la mia azienda”. Sono i sintomi della Sindrome della Cavallina, di cui ho parlato in un altro articolo. Le parole hanno un peso e quello che vine detto ha una conseguenza, sempre. Se vi siete trovati in quella situazione e avete detto o avuto la tentazione di dire “lo so che è così, vedremo come fare” (le alternative a vedremo sono: faremo e brigheremo) sappiate che tutti coloro che vi hanno ascoltati sono convinti che nessuno vedrà (farà o brigherà). Parole sentite troppe volte non hanno significato, come quelle del pastorello della favola di Esopo.
Lavorare sotto pressione non piace a nessuno ed ha lo stesso comportamento del virus: quando una parte del gruppo lavora sotto pressione, dopo un po’ di tempo anche gli altri lavorano sotto pressione, una pressione indiretta data dal fatto che chi ne è vittima rinfaccia la propria condizione a “chi sta meglio”. Una sorta di guerra tra poveri che fa vittime anche tra i vertici.
Chi lavora sotto pressione: “tira, tira… e poi si rompe” la riassumo così, con le parole di uno dei miei nonni. Lavorare sotto pressione, tutti i giorni, tutto il giorno non è una strada che puoi percorrere ininterrottamente, in un modo o nell’altro prima o poi la devi lasciare. La puoi lasciare perché ti sei rotto qualcosa o perché ti sei rotto le scatole. La prima motivazione è la peggiore, significa che per arrivare alla fine della commessa hai lavorato sotto pressione, in velocità e alla fine è inevitabilmente arrivata la disattenzione ed eccolo là, l’incidente. La seconda è diversa dalla prima ma non per questo migliore. Chi lavora sotto pressione prima o poi si stufa e cerca altro portando con sé tutte le esperienze e le competenze che servono all’azienda e ora serviranno ad altri. Non proprio un bell’affare.
Chi non lavora sotto pressione: un problema di un altro alla fine è anche un problema mio. “Nessun uomo è un’isola” che oltre ad essere una frase del film About a Boy con Hugh Grant è soprattutto un libro di Thomas Merton (Garzanti, 1955) e pure un film documentario di Dominique Marchais (2017). Nessuno può sentirsi un’isola, Hugh Grant aveva torto a “sentirsi fico come Ibiza”. Se capita qualcosa ad una persona questo si riflette inevitabilmente su tutti gli altri, figuriamoci se questo qualcosa capita ad un gruppo di persone. Se poco poco conosciamo la teoria della complessità questo appare subito chiaro. La pressione che capita agli altri si ritorce anche contro chi questa pressione non la vive. Basta poco per sentirsi dire “cosa ne sai tu che manco lavori?” (sotto pressione) e visto che sicuramente lavori e pure sotto un tipo diverso di pressione, sentirsi dire una frase del genere di certo fa male al cuore, alla mente e all’anima. La diversità di condizioni causa sempre malumore diffuso. Forse non oggi e non domani, ma un giorno anche chi lavora sotto una pressione diversa sentirà il peso della pressione che vivono gli altri… Nessun uomo è Ibiza.
La direzione. Lavorare sotto pressione non fa stare bene prima o poi qualcuno se ne andrà perché, si suppone, che la pressione sia diventata esagerata. L’azienda assiste alla vaporizzazione degli investimenti in competenze e conoscenze. Un costo, per gli amanti del bilancio che deve giustamente tornare a tutti i costi; un lavoraccio per gli HR che devono rimpiazzare le persone; un grattacapo in più per i colleghi che devono affiancare e formare un’altra persona. Il problema è poi duplice (e sono semplicistico perché, come ho appena elencato, le facce di questa medaglia sono molte più di due) perché vi è anche il problema di clima. La pressione non è un grande corroborante per il clima, si sa, ma non starò qui a differenziare stress da eustress ma semplicemente a ricordare che basta ascoltare per capire se, dove e quali sono i problemi del gruppo. Ascoltare va di pari passo con l’agire, perché è inutile essere a conoscenza di un fenomeno negativo se non si agisce per controllarlo.
Soluzioni possibili e non ricette:
Chi lavora sotto pressione: parlare, parlare, parlare. Non serve dirlo e basta lo si deve dire nei modi, nei termini e nelle occasioni giuste magari accompagnando il dialogo con qualche dato che dimostri quanto la pressione stia facendo male alle persone. Nervosismo, stress, assenteismo, malumore, malattie psicologiche e somatiche sono solo alcune delle condizioni che impattano negativamente sulla produzione e sulla produttività. Parlare significa anche ascoltare i bisogni dell’organizzazione, quindi se porti un problema devi proporre anche una soluzione, meglio se più di una. Fai di tutto per migliorare il lavoro e l’ambiente in cui lo svolgi, a beneficiarne sarà la qualità della tua vita.
Chi non lavora sotto pressione: parlare, parlare, parlare e ascoltare. Non attendere che le soluzioni arrivino sempre dagli altri ma proporre. Siamo tutti sulla stessa barca, per quale motivo dovremmo attendere che la soluzione arrivi sempre dal capitano? Se non abbiamo la capacità o la possibilità di risolvere quel problema, allora ricordiamoci che ogni essere senziente può contribuire al benessere altrui ascoltandone le pene basta un “anche io sono su questa barca, remiamo insieme”.
La direzione: l’ho detto prima, ascoltare e poi agire… almeno provarci. Non è detto che si possa trovare subito la soluzione, si va per prove ed errori come insegna la summenzionata teoria della complessità. Gestire in maniera diversa i tempi, distribuire i carichi di lavoro, indire riunioni periodiche dove si ascolta invece di parlare, progettare insieme l’intervento e poi portarlo a termine. Sono solo alcune delle possibili soluzioni che si possono portare a termine. L’importante è condividere senza calare tutto dall’alto che i tempi di Taylor sono finiti da cento anni. Confronto e ascolto, queste sono le basi di un rapporto costruito su una comunicazione efficace.
Consapevole del fatto che ogni situazione è a sé stante, l’indicazione generale è quella di tener presente quei segnali di malessere che arrivano dal basso che possono essere forieri di problematiche ben più gravi. E’ bene comprendere fin da subito che un monitoraggio costante degli indicatori di benessere/malessere di cui fa parte la pressione lavorativa non occasionale, è preventivo ad una gestione ottimale sia della salute individuale che dei rapporti interpersonali. Ancora una volta l’ascolto come competenza trasversale si dimostra una parte integrante e fondamentale del processo di comunicazione. Sarà quindi fondamentale, soprattutto nel futuro prossimo, investire in tal senso se vogliamo avere condizioni di benessere e vantaggio competitivo. Quindi, la domanda più utile che possiamo porre è: come posso migliorare il tuo lavoro?
Piero Vigutto
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