
Il conflitto lavorativo, si sa, è normale. Ancora ricordo il convegno organizzato qualche anno fa a cui partecipai come relatore. Era agli inizi della prima decade del terzo millennio, si parlava di stress e conflitti e sostenni che il conflitto era una condizione normale sul luogo di lavoro, era impossibile evitarlo, quello che però si poteva fare era imparare a gestirlo. Un manager di una multinazionale, era uno dei relatori, intervenne subito dopo affermando che a suo avviso il conflitto doveva essere evitato in tutti i modi e che spesso era meglio lasciar stare che intervenire. Gli risposi che la conflittualità non necessariamente impone l’uso di armi di distruzione di massa ma che spesso prende la forma di una discussione dai toni accesi e che è una condizione normale anche in un matrimonio dove (in teoria) ci si ama, figuriamoci al lavoro!
Evitare i conflitti è impossibile. Poco credo a quelli che “con me non si arrabbia mai nessuno”, non è vero. E’ che non te lo dicono! Nella gestione della conflittualità diventa fondamentale far emergere il prima possibile, attraverso il dialogo, le condizioni che portano al conflitto. Spesso questo non si fa, si lascia invece stare, non si comunica, ci si gira dall’altra parte, non ci si bada… la conseguenza è l’acuirsi di una condizione stressogena che può portare una persona a manifestare conseguenze serie per la propria salute. La classica goccia che fa traboccare il vaso e, quando il vaso è traboccato, non c’è più nulla da fare.
Lo stress porta a questo. Vediamo nello specifico cos’è lo straining.
Straining (dall’inglese to strain: forzare) assume nel contesto lavorativo il seguente significato: Azione ostile o discriminatoria compiuta da un superiore nei confronti di un subalterno, per es. il demansionamento, l’isolamento o la sottrazione degli strumenti di lavoro, i cui effetti si prolungano nel tempo producendo stress e sofferenza psichica in chi la subisce.
Anche se da questa definizione sembra equiparabile, di sicuro lo straining non è mobbing e lo dice anche la pronuncia n. 18164/2018 della Suprema Corte di Cassazione. Mentre il mobbing è una condizione stressogena derivante da azioni ripetute e reiterate nel tempo mentre per lo straining potrebbe trattarsi anche di un’azione isolata è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante” (Ege, Oltre il mobbing, Straining, Stalking ed altre forme di conflittualità sul posto di lavoro. Franco Angeli Editore).
Infatti secondo la Cassazione Civile, Sez. Lav., 4 giugno 2019 n.15159 “gli orientamenti oramai consolidati di questa Corte sono:
– è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n.12437; Cass. 10 novembre 2017, n.26684);
– è configurabile lo straining, quale forma attenuata di mobbing, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n.18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n.7844), ma comunque con effetti dannosi rispetto all’interessato”.
Quindi perché si configuri lo straining basterebbe anche un unico episodio. Viene anche chiarito che: “è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass.20 giugno 2018, n.16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass.20 aprile 2018, n.9901), fermo restando che si resta al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass.29 gennaio 2013, n.3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n.4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n.26972).”
Visti gli orientamenti giurisprudenziali in materia di stress lavoro correlato che, non nascondiamocelo, fino ad ora da parte di molte imprese erano relegati ad un modulo da compilare, è bene considerare la questione in maniera molto più profonda.
Non è più sufficiente quindi dimostrare di essere in regola con la check list degli obblighi di legge riguardanti la sicurezza. L’ausilio di uno psicologo del lavoro e di attività cadenzate nel tempo atte a far emergere anche i sintomi della conflittualità diventano prioritari al fine di evitare il verificarsi di situazioni spiacevoli che portino l’azienda a dover pagare uno scotto troppo alto solo perché non è intervenuta in tempo o abbia semplicemente lasciato perdere trascurando i sintomi.
Piero Vigutto