Diversity Management, quello vero
Quando conobbi Massimiliano Nucci mi sembrò fin da subito una persona estremamente tranquilla e posata, uno di quelli che vorresti avere come vicino di casa perché ti regala sempre una bella parola e, da bolognese DOC, ha la spigliatezza e la simpatia dei suoi conterranei. Da poco è diventato HR Manager di PiQuadro. Con lui abbiamo parlato di Diversity Management, un tema che gli è assai caro e che ha portato in tutte le aziende in cui è stato. Vediamo assieme a lui di cosa si tratta.
Hai organizzato assieme ad AIDP il progetto “GET UP – Gender Training to overcome unfair discrimination Practices in education and labour market”. Da dove è partita l’esigenza?
Non l’ho organizzato io! Io invece avuto il piacere e l’onore di partecipare come “esperto” incaricato da AIDP (l’Associazione Nazionale per la Direzione del Personale). Il progetto è stato realizzato da un consorzio internazionale, composto da 8 organizzazioni europee; UIL come capofila e – come partner – organizzazioni del mondo della Scuola, della Formazione. Un ruolo di spicco è stato assegnato ad AIDP, per la rappresentanza di un delicato ambito aziendale, come quello della gestione e dello sviluppo delle Risorse Umane. Get Up – acronimo di Gender Equality Training to overcome Unfair discrimination Practices in education and labour market – si è dato i seguenti obiettivi: progettare una formazione efficace per chi lavora con le persone lungo la catena di istruzione-formazione-mercato del lavoro (orientatori, operatori dei centri per l’Impiego, insegnanti con funzione orientativa, selezionatori, formatori, HR Manager e sindacalisti); riconoscere e convalidare le competenze acquisite in contesti non formali e le esperienze professionali legate alla promozione dell’uguaglianza di genere; esaminare le descrizioni e le mansioni del lavoro evitando linguaggi discriminatori e il perpetuarsi della segregazione settoriale di genere; migliorare i requisiti minimi anche per l’avanzamento di carriera per uomini e donne; sensibilizzare sull’impatto delle discriminazioni e sulle opportunità legate alla valorizzazione delle differenze di genere. Per quanto riguarda la professione che svolgo, abbiamo cercato di definire i comportamenti che i professionisti delle Risorse Umane dovrebbero tenere nel loro lavoro quotidiano per evitare discriminazioni di genere. Ad esempio in fase di selezione ci possono essere discriminazioni involontarie. Anche nella comunicazione che l’azienda effettua via web ci possono essere immagini in cui vengono privilegiati solo gli uomini o solo le donne. Se provi a scrivere la parola “manager” su un motore di ricerca, sul web appaiono molti più uomini rispetto alle donne. Se provi con “ingegnere” accade la stessa cosa. Questo non significa che il motore di ricerca attui comportamenti discriminatori: è solamente lo specchio del mondo che gli sta attorno. Se i contenuti inseriti in rete collegati alle parole manager o ingegnere hanno come riferimenti solamente gli uomini il motore di ricerca restituirà solamente foto di uomini. Un atto discriminatorio amplificato dal web può portare ad un mancato riconoscimento nel ruolo da parte delle donne che potrebbero non candidarsi per posizioni di manager o di ingegnere. Una mancata opportunità per le Persone, una perdita di capacità per le aziende e per la società.
Ci stai dicendo che il mondo del lavoro è impregnato di una cultura stereotipata che penalizza le donne?
Penalizza le donne, ma non solo. Purtroppo la dimensione è molto più ampia e la stessa cosa abbiamo visto che accade nel mondo della scuola. Prova a fare una ricerca e a vedere quante sono le ragazze iscritte ai corsi di Operatore Socio Sanitario e quanti sono invece i ragazzi, lo stesso fai con gli annunci per executive assistant e guarda quanti sono i candidati maschi. Sono situazioni che creano sbilanciamenti portando i ragazzi a non prendere in considerazione la possibilità di diventare OSS o executive assistant e le ragazze a non prendere in considerazione una facoltà tecnica. Le domande che dobbiamo porci sono: quanto il genere è discriminante nella scelta della professione? Come possiamo garantire la parità di genere nella scelta professionale? È importante capire questi fenomeni perché eventuali discriminazioni, anche involontarie, influenzano gli indirizzi scolastici, i passaggi di categoria, le promozioni, la copertura delle posizioni vacanti, il livello e la retribuzione. L’Italia ha ancora molto da fare in questo senso.
Il Diversity management è un tema attuale ma ancora poco dibattuto. Come lo spiegheresti a tua figlia adolescente?
Se dovessi spiegare a mia figlia cosa sono la diversità e l’inclusione le direi che ogni persona è unica; ogni Persona deve poter varcare la soglia del futuro (opportunità) ed essere messa in condizione di esprimersi al meglio delle proprie capacità e dei propri desideri. Le dinamiche familiari sono un ottimo contesto per osservare gli stereotipi di genere e un’ottima opportunità per creare una cultura nuova per le nuove generazioni: Chi apparecchia? Chi fa la spesa? Chi aiuta a fare i compiti? Chi si occupa dei genitori anziani? Come ci si veste? Che sport “puoi” fare? A che ora puoi rientrare a casa? Sono tutte domande semplici, ma le risposte (verbali e nei fatti) che diamo come genitori possono essere ricche di stereotipi e condizionare la visione dei nostri figli.
Ci sono diversità che meritano oggi maggiore attenzione?
In realtà tutte le situazioni meritano una considerazione particolare. Negli ultimi anni l’attenzione è stata posta prevalentemente sulle diversità di genere, di razza, di orientamento sessuale, di abilità. La sfida a mio giudizio nuova per la maggioranza delle Aziende (nuova nel senso che pochissime sono le Aziende che abbia iniziato a fare analisi e ad implementare azioni rilevanti) è quella dell’Ageing; valorizzare le competenze di tutte le generazioni, comprenderne le differenze, creare un contesto in cui ciascuno abbia opportunità indipendentemente dall’età. Le discriminazioni basate sull’età sono a mio giudizio molto diffuse: oggi sono ancora numerose le aziende con percorsi di carriera riservate – nei fatti – agli under 45. Eppure oggi, a 45 anni, non sei nemmeno a metà del tuo percorso lavorativo, ma in molti contesti le tue opportunità di carriera sono terminate. Quanta formazione viene fatta alle Persone con più di 50 anni? Quante aziende associano la parola “talent” esclusivamente alla parola “young”? Sembra che il talento ci sia fino a 35/40 anni poi puff… scompaia, scompaiono i programmi di crescita e di carriera… Quante volte vediamo negli annunci la parola “giovane”? Questa è già discriminazione, la discriminazione inizia già nel linguaggio. Cercasi “giovane ingegnere”, cercasi “manager età max 40 anni”… In una comunicazione di questo genere sembra sia più importante l’età che quello che so fare. Vogliamo verificare se siamo davvero inclusivi? Misuriamo. Misuriamo quanto over 45 abbiamo assunto negli ultimi 12 mesi sul totale delle assunzioni. Misuriamo quante/i Colleghi over 45 abbiamo nominato manager sul totale delle nomine. Lo stesso criterio può essere utilizzato per misurare i nostri comportamenti rispetto al genere.
Misurare ci restituisce la bontà o lo spazio di miglioramento della nostra organizzazione.
Devo dire con grande sincerità che ci sono aziende che stanno facendo cose molto interessanti sul tema Ageing: penso a Philips, Zurich, Telecom… ma secondo me la maggior parte delle organizzazioni non ha ancora approfondito e pensato a questo tema. Sarebbe importante ragionarci perché il mondo del lavoro sta radicalmente cambiando. Rimarremo al lavoro per molti più anni rispetto ai nostri padri quindi l’azienda dovrà essere progettata su una permanenza più lunga del Collaboratore. È un tema sociale ma anche di ripensamento del business.
In questi ultimi anni, mi pare che una altra grande sfida sia quella delle generazioni in azienda: come possiamo far “convivere” differenti abilità, competenze, linguaggi, razionalità, modi differenti di “sentire” e “vivere” il lavoro delle generazioni dai 20 ai 70 anni? Quali sono le contaminazioni positive che possiamo favorire? Ad esempio durante la loro esperienza lavorativa, i più giovani prendono sempre più in considerazione un periodo di 6 o 12 mesi sabbatici per fare altre esperienze, una richiesta che 30 anni fa era impensabile, guardata con sospetto. Oggi è normale e dobbiamo tenerne conto.
Quali sono le implicazioni pratiche di un intervento sulla diversity in azienda? Puoi farci un esempio?
Quando ero nel team HR di IKEA, abbiamo diffuso il part time medio annuo. Guardando bene chi lavorava con noi, ci siamo accorti che c’erano molti genitori con figli in età scolastica, c’erano studenti universitari, c’erano Persone che avevano la famiglia di origine distante centinaia se non migliaia di chilometri. Ci siamo domandati cosa possiamo fare per loro e nel contempo per il business? Abbiamo cercato di guardare i flussi della Clientela nelle settimane dell’anno e verificato individualmente con le Persone l’interesse a fare più ore di lavoro nelle settimane ad alto flusso e meno (o addirittura zero ore) in quelle con il flusso più basso. In tantissimi hanno aderito al progetto trovando la possibilità di assistere i figli nei mesi con le scuole chiuse, la possibilità di stare con la famiglia di origine per due o tre mesi dall’altra parte dell’Italia o del Mondo, di preparare davvero bene gli esami etc. Ovviamente per fare questo si deve tener conto tanto dell’andamento del business quanto del work and life balance, del CCNL e delle fasi di vita delle persone, del business e dei numeri che genera in termini di fatturato, presenze e organizzazione. In quel caso il CCNL lo consentiva, abbiamo risposto alle necessità dei dipendenti e contemporaneamente abbiamo garantito il servizio al Cliente garantendogli un maggior numero di coworker qualificati nei momenti di alto flusso . In pratica ne hanno beneficiato tutti. Il processo non è semplice ma credo che se usiamo la fantasia possa essere piuttosto semplice pensare ad un’organizzazione inclusiva. C’è una componente fondamentale di etica e di responsabilità sociale, ma se si riesce a diffondere una cultura e una visione di “Business and People together” tutto può accadere molto più velocemente, convincendo anche gli imprenditori più “old style”.
Smart working e welfare, due parole abusate che spesso hanno poca concretezza. Tu cosa ne pensi di questi due strumenti?
Penso che in Italia ancora oggi abbiamo una rigida concezione della prestazione lavorativa e della sua misurazione: mi chiedo se i tempi non siano maturi per ripensare ad un compenso per il lavoro basato su elementi diversi dalle mere “ore di prestazione”, almeno in certi contesti. Qualcosa si comincia a vedere, ma è ancora molto poco. Riguardo allo smart working credo che siamo tutti in una fase di sperimentazione che serve per vedere se siamo capaci di portare risultati e garantire un certo livello di servizio. Vedo piccoli tentativi ma ancora tanta cautela e poca fiducia nonostante i risultati positivi. Riguardo al welfare per farlo bene dobbiamo tener conto delle diverse necessità e, purtroppo, anche qui siamo in fase esplorativa. Ci sono aziende più coraggiose che hanno formule interessanti ma siamo ancora in una fase embrionale o di nicchia. Ci vorrà del tempo affinché smart working e welfare diventino elementi accettati e realmente efficaci. Pensa ad un mondo futuro in cui davvero una Persona possa comporre l’intero proprio compenso inserendo nel suo cesto elementi di tempo, denaro, beni e servizi.
Piero Vigutto