“Fai un corso ai miei dipendenti perché gli manca la motivazione” è una delle frasi che ho sentito in questi anni unitamente a “I miei dipendenti dovrebbero essere un po’ più imprenditori” facendo riferimento alla motivazione a fare, a proporre, a creare. Rispetto a quest’ultima frase posso dire che è semplicemente paradossale, se ci fosse la motivazione all’imprenditoria mancherebbe la motivazione a fare il dipendente, assolutamente legittima si badi bene, ma se fossi un’imprenditore o un manager mi preoccuperei seriamente se il personale della mia azienda avesse la motivazione ad essere imprenditore e non dipendente. Perché? Beh, perché la motivazione ad essere imprenditore non coincide con la motivazione ad essere dipendente. Questo porterebbe le persone ad uscire dall’azienda e, oggi come oggi (e pure ieri ma per molti era meno chiaro), la fuoriuscita di personale dall’azienda, soprattutto se preparato, pone il grossissimo problema della sostituzione.

Mi capita proprio alla fine di quest’anno, periodo di auguri prenatalizi, di ricevere un messaggio da una persona che avevo conosciuto in un’azienda cliente dove a suo tempo ero stato contattato per rivedere la funziona HR. Franco, nome di fantasia, me lo ricordavo come una persona estremamente empatica e capacissimo nel suo mestiere tanto che, scopro durante la telefonata di auguri, aveva cambiato azienda per accettare una di quelle proposte che non si possono rifiutare. Franco mi racconta che alla proposta di diventare manager non aveva resistito, aveva finalmente avuto la proposta che aspettava da anni: primi tre anni da quadro e poi dirigente.
Franco parlava della sua motivazione personale, quella che non mancava mai la mattina appena alzato. La motivazione a fare, a mettersi in gioco e a coordinare nel miglior modo possibile il team di lavoro. Mi parlava però con una voce diversa da quella che ricordavo, meno robusta, meno entusiasta e il motivo non ha tardato ad emergere. Erano trascorsi gli anni e la promozione a dirigente non era arrivata. Prima per un motivo, poi per un altro, poi per un altro ancora e gli era stato sempre comunicato facendo precedere gli elogi sul lavoro che stava svolgendo. Il discorso si era sempre concluso con “Ne riparliamo il prossimo anno”. Franco rimpiangeva quell’azienda più piccola da cui era arrivato e dove ciò che veniva detto veniva poi fatto ma ormai era troppo tardi. A metà telefonata, mi confessa:
“Mi voglio licenziare… e non ho neppure un’altra proposta di lavoro.” Peccato, gli ho detto, dopo tutti quegli anni trascorsi a costruire una posizione, a raggiungere gli obiettivi, a formare e gestire le persone sarebbe stato davvero un peccato andarsene. Ne abbiamo parlato per altri trenta minuti. Alla domanda quale poteva essere la motivazione a restare mi ha semplicemente risposto che non c’era più, e non che l’azienda non fosse stata grata per quello che aveva fatto, non erano mancate le prove tangibili: piani di welfare, coperture assicurative, aumenti salariali. Il brutto delle misure tangibili è che sviluppano una motivazione a rimanere limitata nel tempo. Ai fini dell’engagement la motivazione materiale è come una fiamma che brucia, lentamente esaurisce il combustibile. Ecco perché sono sempre stato contrario ai corsi motivazionali, praticamente non servono se non in un tempo decisamente limitato. Poi resti con un cerino in mano e con la voglia di scappare da un posto che non solo non ti motiva ma disattende le aspettative.
“Cosa ti farebbe cambiare idea” gli ho chiesto.
“Ormai nulla.”
Franco cercava un consiglio (che io non do mai e lui lo sapeva) su quello che doveva fare ma in realtà aveva già deciso. Peccato, quell’azienda perderà un ottimo collaboratore. Eppure spesso basta davvero poco.
In un mondo dove non si trova personale o è difficile da trovare e dove chi è preparato sa di esserlo e per reclutarlo devi soggiacere alle richieste (se te le puoi permettere), trattenere le persone dovrebbe essere un must. Si fa spesso riferimento alla motivazione a rimanere come un elemento intrinseco al solo collaboratore, sinceramente non sono d’accordo e sono ancor meno d’accordo con gli incentivi economici o materiali a rimanere perché c’è sempre chi offre di più. La motivazione a rimanere va data giorno dopo giorno coltivando la relazione interpersonale e valorizzando quella professionale. Per creare una relazione stabile che si trasformi in engagement duraturo ci sono tantissime strategie, nessuna di esse presuppone un compenso economico. Tutte quante prevedono un investimento in competenze trasversali che in questo caso riassumo con una sola parola: costanza. Costanza nel costruire un rapporto. Costanza nel mantenerlo. Costanza nel lavoro quotidiano di ascolto. Costanza. La costanza è un fuoco che arde perché qualcuno lo alimenta con promesse mantenute, ascolto attivo, una comunicazione alla pari. Perché la motivazione è tanto… ma non è tutto.
A proposito, Franco mi ha chiamato ieri per gli auguri di buon anno. Ritornerà alla sua vecchia azienda, uno stipendio inferiore ma relazioni vere.
Buon anno.
Piero Vigutto
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