Parliamo di Smart working. In questo periodo sto leggendo “In-Dipendenti” di Marco Bentivogli di cui non anticipo nulla, verrete a sapere tutto dalla rubrica #30giorni1libro. Comunque sia, sono mesi che si parla di smart working nel bene e nel male. Su questa modalità di lavoro ne ho sentite davvero di cotte e di crude e possiamo così riassumerle:
I puristi: smart working, l’unica vera soluzione per i dipendenti del futuro, i puristi non vedono altra soluzione. Vuoi essere un dipendente libero da ogni vincolo fuorché quello contrattuale? Beh hai solo una possibilità: smart working sempre, ovunque e a qualunque costo. Lo smart worker purista non vede altre soluzioni per approcciare il mercato del lavoro che si svilupperà nei prossimi anni. Per essere allineati con il mondo che verrà possiedono il device all’avanguardia che gli consente di lavorare in maniera smart in ogni stanza della casa, al parco, ovunque si senta a suo agio e per essere a proprio agio nulla è meglio di un tablet che fa girare il gestionale come Dio comanda.
Gli oppositori: smart working? Ma torna in azienda e vai a lavorare davvero! In questo periodo hanno riempito le pagine delle testate giornalistiche che si vendevano al miglior urlatore nostalgico del vecchio regime, chiedo scusa, del modo giusto (per loro) di lavorare: vai in ufficio punto e basta che se non vai in ufficio e non ti mangi il panino take away che sa di polistirolo al costo di un buono pasto i bar sotto i palazzoni del centro chiudono e se succede crolla il PIL ed è tutta colpa tua.
I sognatori: lo smart working mi permetterà di andare a vivere dove voglio io meglio se lontano dalla civiltà (in un faro, in mezzo al bosco, sulla riva di un fiume in Alaska, ecc… purché ci sia una connessione). Hanno già venduto casa che avevano nel centro della periferia e si sono trasferiti in collina o in montagna, lontano da tutti, in mezzo ai boschi, in mezzo al nulla ma… con la connessione perché lo smart worker può fare a meno della gente ma non della connessione. Ti raccontano di quanto sia bello lavorare in mezzo al nulla con nessuno che ti sta tra i piedi, avendo come colonna sonora il cinguettio dei passeri e il grufolare dei cinghiali ma non ti raccontano, come dice Arianna Porcelli Safonov, nel video di #Nobilita, di quanto sia dura spaccare la legna per accendere il fuoco che scaldi un po’ la casa gelida e di come la caligine causata dai fumi che non escono dal camino causa bassa pressione o semplicemente perché sei imbranato visto che l’unico fuoco che hai acceso è quello del BIC con cui ti accendi le sigarette.
I tecnofobici: lo smart working ti rende grasso e cieco (ma solo perché sei sempre davanti al pc, non per i motivi che ti diceva la nonna). Se gli chiedi se hanno un router ti rispondono che no, loro hanno digerito bene e certi rumori non li fanno; la VPN la scambiano per la sigla di un neonato partito; la connessione è quella del cavo che congiunge la parete al pc. I tecnofobici sanno che la tecnologia ti ruba il lavoro quindi non ne vogliono sapere, il lavoro si fa in ufficio. Punto e basta. Così facendo credono che appoggiare il sedere su una sedia ignorando i misteri del computer sia sufficiente a mantenere a vita il loro status di dipendente.
Gli animali sociali: ovvero coloro che se non vanno in azienda a lavorare si sentono lontano da tutto e da tutti. C’è chi proprio non ne può fare a meno di andare in ufficio, non tanto perché gli piaccia stare incolonnato in auto, né perché siano particolarmente affezionati al luogo di lavoro e neppure perché sono contro lo smart working, ma perché al lavoro ci trovano i colleghi. Gli animali sociali non sanno stare da soli, non ci riescono proprio e l’ufficio e la fabbrica diventano luoghi di aggregazione a cui sono attaccati perché possono vedere, incontrare e stare con i colleghi.
Poi, alla fine, quando ci viene voglia di fare i seri, quando abbiamo davvero l’intenzione di capire cosa significhi essere smart e quando sei worker e di capire cosa passa nella testa di uno smart worker vero, possiamo ascoltare l’intervista a Davide Cardile che, come ama presentarsi lui, di professione fa il Thinking Partner, Story Strategist, Blogger ed ha altri titoli strani e fantasiosi. Da oltre dieci anni si occupa di comunicazione, aiutando professionisti e aziende creare, comunicare e vendere buone idee ed è pure bravo. Un caro amico che ho intervistato per avere l’opinione di chi ha scelto di non abbandonare la terra in cui è nato, la Sicilia, e da lì iniziare un rapporto a distanza con partner e clienti.
Piero Vigutto
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