*Nota: non percepisco denaro per la segnalazione di questi testi e la recensione pubblicata è frutto della mia personale opinione.

Nel suo saggio provocatorio, Alvesson e Spicer emergono come pensatori audaci, smascherando l’insidiosità della “stupidità funzionale” nelle organizzazioni, quel paradosso per cui persone intelligenti mettono da parte il pensiero critico per obbedire a logiche di conformità, procedure o branding. Il titolo, forte e diretto, anticipa un’analisi serrata del rapporto tra potere, routine e la tendenza a sacrificare la riflessione sul lavoro efficiente ma potenzialmente insensato. La loro tesi si fonda sull’osservazione che in molte realtà complesse vengono installate dinamiche che rendono inutile domandarsi “perché?”, favorendo l’“esegui e basta” in nome dell’armonizzazione tra colleghi e dell’azione organizzativa—una strategia di breve termine utile, ma pericolosa se protratta nel tempo.
Il testo ruota attorno all’idea che la stupidità funzionale possa perfino aiutare a mantenere la coesione del gruppo, evitando conflitti e ritardi, ma che questa stessa dinamica costituisca un potenziale disastro quando idealizzata o istituzionalizzata. Il vero paradosso è che l’accuratezza dell’esecuzione non garantisce la profondità del pensiero critico, e un’organizzazione carente di pensieri critici può abbandonarsi a fallimenti imponenti . Il libro ci spinge a vedere quanto accade frequentemente: brillanti laureati, reclutati come “menti pensanti”, alimentano processi che ignorano segnali di pericolo, affidandosi ingenuamente a modelli, branding e procedure vuote.
La parte centrale distingue cinque tipologie di stupidità funzionale: quella indotta da leadership autoritarie o manipolative, da strutture rigide, dall’imitazione acritica, dal branding e dalla cultura aziendale. Gli autori analizzano con sarcasmo e chiarezza come manager possano spingerci a non fare domande, brandizzare l’esistente pur di apparire innovativi, o seguire mode organizzative senza processi di senso. Casi concreti – come la dipendenza da slide più che da analisi sostanziali, corsi formativi vuoti, o strategie di cambiamento reiterate senza modifiche reali – rendono il ritratto di un mondo del lavoro in cui l’apparenza spesso vale più della sostanza.
Pur da tono critico, Alvesson e Spicer non demonizzano completamente questa dinamica: riconoscono che una piccola quota di stupidità funzionale può servire a compattare gruppi, evitare paralisi decisionale e mantenere flessibilità. Tuttavia, quando diventa sistema, spegne la creatività, alimenta la mediocrità collettiva e indebolisce la resilienza organizzativa. Il vero fallimento emerge quando la stupidità funzionale si trasforma in cultura dominante, scavando un solco tra competenza individuale e performance collettiva.
Il capitolo finale propone un antidoto: coltivare la “negative capability”, cioè la capacità di convivere con incertezze, dubbi e domande scomode. Vengono suggeriti strumenti concreti: il ruolo del “devil’s advocate”, l’uso di pre e post-mortem, il coinvolgimento dei nuovi arrivati come osservatori, o la creazione di task force anti‑stupidità. Si tratta di elementi concreti per ripensare l’organizzazione: non eliminare l’ordine o l’efficienza, ma integrarla con riflessione critica e libertà cognitiva.
Lo stile è stimolante, tagliente, spesso ironico. Gli autori non si accontentano di criticare: offrono strumenti operativi per dirigenti, team leader e professionisti che desiderano portare il pensiero critico riflessivo al centro del proprio lavoro, senza rinunciare all’efficacia. Nella sostanza, il libro diventa una richiesta di responsabilità intellettuale collettiva: non accettare semplicemente l’ordine stabilito, ma interrogare la sua validità e significato.
In conclusione, “Il paradosso della stupidità” è un testo che scuote le coscienze aziendali e individuali, spingendoci a riflettere su quanto di ciò che facciamo sia davvero pensato, e non semplicemente ereditato o imposto. È una lettura vivificante per chi gestisce persone o processi, ma anche per chi vuole mantenere la propria integrità intellettuale in contesti che troppo spesso premiano l’esecuzione silenziosa. Il vero cambiamento si gioca tra armonia e pensiero critico: bilanciare questi elementi è il salto evolutivo di cui ogni organizzazione ha bisogno.

Cultura aziendale e sport, un binomio improbabile? James Kerr ci trasporta nel cuore pulsante del rugby neozelandese attraverso “Legacy”, un libro che decostruisce i segreti della celebre squadra degli All Blacks per trasformarli in lezioni applicabili nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana. Fin dalle prime pagine si percepisce la volontà dell’autore di andare oltre l’ovvio, scegliendo come filo rosso la cultura di una delle formazioni sportive più vincenti nella storia del rugby moderno. Non è un trattato tecnico né un saggio sul gioco del rugby, bensì un viaggio tra i valori che hanno costruito e preservato l’eccellenza degli All Blacks, tradotti poi in 15 principi di leadership capaci di orientare chiunque verso l’alta performance.
L’intento è chiaro: capire il perché dell’efficacia straordinaria di questa squadra, mantenuta nel tempo, ed estrarne le leve di guida efficaci ovunque. Tra queste, spicca il concetto che “i campioni fanno di più” e che l’umiltà consiste anche in gesti simbolici, come pulire gli spogliatoi dopo ogni partita: quel gesto semplice “sweep the sheds” diventa una dichiarazione di valori, un messaggio che serve a mantenere i piedi per terra anche quando si è in vetta .
James Kerr approfondisce quella capacità degli All Blacks di reinventarsi continuamente. Quando sei al top, il libro spiega, devi reinventare te stesso, abbracciare il cambiamento, anticipare la curva evolutiva. È la quintessenza della resilienza e dell’innovazione continua: una squadra che rifiuta la compiacenza e punta sempre sull’evoluzione meritocratica.
Un altro principio chiave è il senso del propósito: “gioca con uno scopo” diventa una domanda pratica, chiedendosi perché si fa ciò che si fa, collegando ambizione personale e significato collettivo. Si impara così a progettare un progetto comune che arrivi oltre le singole performance. Ne consegue la centralità del linguaggio e della cultura aziendale condivisa, veicolata attraverso rituali – come l’Haka – capaci di tenere insieme la squadra e collegarla alla radice storica e identitaria del gruppo .
Parallelamente Kerr traccia un profilo di leadership autentica: quella che si costruisce sul controllo delle distrazioni, sulla gestione della pressione, sulla coscienza di sé. Il “blue head”, lontano dal cervello ansioso e reattivo, diventa sinonimo di lucidità e precisione nei momenti critici. Nasce così una visione dell’auto-dominio non come repressione mentale, ma come capacità di canalizzare energia verso obiettivi collettivi.
L’autore dipinge un altro paesaggio, forse meno evidente ma potentemente emozionante: il peso del sacrificio personale e la responsabilità nei confronti dei compagni e delle generazioni future. Il concetto di “good ancestors” invita a lasciare un’eredità che non sia solo successo personale ma un’eredità culturale, educativa e sociale . Il risultato diventa un libro che non insegna a essere semplicemente un leader, ma a pensarsi come architetto di un progetto collettivo che duri nel tempo.
Soprattutto, “Legacy” non è solo un elenco di regole, ma uno specchio in cui si vede riflessa la connessione tra individuo e squadra, tra etica personale e missione organizzativa. James Kerr costella il testo di citazioni significative e di esempi pratici, tra cui alcune voci di coach d’élite come Phil Jackson, che conferiscono spessore senza perdere concretezza. I critici riconoscono, però, che suona talvolta ripetitivo: alcuni concetti vengono sfiorati più volte, talvolta attingendo a modelli manageriali o sportivi extra-rugby, e questo può far percepire una certa ridondanza narrativa .
In conclusione, “Legacy” è un libro che travalica i confini dello sport, arrivando a chiunque sia alla guida di un team, di una comunità o una famiglia. Richiede apertura mentale e umiltà per riconoscere che il successo non è mai autoprodotto, ma nasce sempre dal dialogo tra valori condivisi, azioni concrete e coerenza personale. Per chi lavora in HR, nella cultura aziendale e manageriale o in contesti formativi, regala spunti concreti su come trasformare una cultura aziendale, creando senso e scopo oltre gli obiettivi numerici.

Pubblicato nel 2020, si colloca nel filone delle “cronache pandemiche” che hanno segnato il biennio Covid‑19, ma con una proiezione più ampia: non si limita a descrivere i fatti, bensì li traduce in riflessioni essenziali sulla condizione umana nel tempo dell’incertezza.
Pilutti adotta uno stile che alterna sguardo personale e orientamento universale: la sua scrittura non è solo descrittiva, ma interrogativa. L’autore decostruisce le narrazioni collettive dominanti – dati, bollettini, algoritmi – per restituire uno spazio mentale in cui le persone possano porsi domande più ampie: sul senso del tempo sospeso, sui meccanismi psicologici che si innescano in isolamento, e sul ruolo del racconto nella gestione delle crisi durante la pandemia.
Con 124 pagine concise e dense, Pilutti focalizza l’attenzione su temi che emergono quando la quotidianità si trasforma: relazioni, paura, fragilità, memoria e possibile rinascita. Non si limita a narrare il presente, ma mette in dialogo l’esperienza contemporanea con quelle pandemie passate – dal medioevo manzoniano alle grandi pestilenze – evidenziando come la diffusione in tempo reale delle informazioni abbia amplificato la portata emotiva e psicologica della crisi.
Il libro si struttura come un taccuino cognitivo, dove ogni capitolo avvia una riflessione, propone una domanda o lascia turbinare un’idea. Così, il lettore non viene passivamente informato, ma sollecitato ad attivare uno spazio interiore di comprensione. Non è un testo accademico, né un saggio clinico: è un calling all’attenzione, un tentativo di restituire alla pandemia una dimensione umana e pensata.
Un elemento centrale è il riferimento al celebre aforisma di Terenzio – “Nihil humanum mihi alienum est.” – che Pilutti reinterpreta per affermare che solo attraverso l’empatia possiamo elaborare il trauma collettivo. Non bastano i numeri, le terapie intensive o le misure di contenimento: serve un ricorso alla cultura umanistica e alle narrazioni simboliche, per dare un senso condiviso a un’esperienza epocale e riplasmante.
Il lettore, dunque, non trova formule per ripartire, e nemmeno esempi edificanti. Trova spunti, domande e spazi mentali. In un contributo definito da Piero Vigutto “linguaggio appropriato e coinvolgente” per offrire “strumenti di conoscenza preziosi”, Pilutti restituisce dignità al pensiero individuale e all’esperienza interiore, ferita e potenziata dalla crisi durante la pandemia.
Un libro che è una guida mentale più che pratica: non offre “cosa fare”, ma chiede “cosa pensare”. È scritto per chi cerca una lente cognitiva e umanistica sulle trasformazioni emergenti dopo la pandemia, più che un manuale di resilienza o autoripresa.
Dal punto di vista stilistico, il testo è leggero, scorrevole, eppure denso di richiami culturali: la citazione di Manzoni, il rimando alla memoria storica, l’uso del lessico evocativo fanno emergere una scrittura che non sfoggia complessità, ma la struttura con eleganza minimale.