*Nota: non percepisco denaro per la segnalazione di questi testi e la recensione pubblicata è frutto della mia personale opinione.

Un romanzo storico che intreccia magistralmente la vita personale e pubblica della famiglia Florio con la storia d’Italia tra la fine del Settecento e l’Ottocento. La narrazione comincia nel 1799 con il tragico esodo da Bagnara Calabra e si sviluppa fino al consolidamento dell’impero imprenditoriale di Vincenzo Florio. In questa saga, la Calabria e la Sicilia acquistano i contorni di protagoniste, rappresentando non solo uno sfondo geografico, ma veri e propri personaggi con temperamento, odori, lingue e contraddizioni intense. L’autrice, attraverso una documentazione rigorosa, ricostruisce atmosfere, ambienti e contesti storici con tale cura che il lettore sembra davvero calato tra i vicoli di Palermo dell’epoca.
Lo stile di Auci è fluido e coinvolgente: la prosa, pur semplice, non manca di profondità emotiva, capace di evocare sensazioni vive. Questo registro comunicativo ha conquistato pubblico e critica, tanto che il libro ha venduto centinaia di migliaia di copie, ha ricevuto numeri record di ristampe già nel primo mese e ha ispirato una serie televisiva di successo su Disney+, vincitrice di premi come i Nastri d’Argento e il Flaiano per le interpretazioni principali . Storie di amore, potere, ambizione e fragilità si alternano e si mescolano in modo naturale, restituendo un affresco corale ricco di sfumature.
Un elemento distintivo del romanzo è l’uso sapiente del dialetto siciliano e calabrese all’interno dei dialoghi. Stefania Auci riesce a infondere un sapore autentico senza appesantire la lettura, facendo rivivere le sonorità originali dei personaggi e infondendo intensità culturale alle pagine. Questo approccio rendere la storia più autentica e radicata nel territorio, consentendo al lettore di percepire la Sicilia come un mondo pulsante e vivo.
I personaggi, soprattutto i protagonisti maschili come Paolo, Ignazio e Vincenzo Florio, sono tratteggiati con abilità emotiva. Ignazio appare come figura paterna stabile e pacata, mentre Vincenzo, energico e ambizioso, incarna la tensione verso il successo e il riscatto. Le figure femminili, da Giuseppina a Giulia Portalupi, hanno un ruolo centrale e non marginale: la loro presenza è fondamentale per dare equilibrio emotivo e intellettuale ai grandi uomini della famiglia.
Nella parte iniziale il romanzo offre uno spaccato particolarmente vivace e intenso della costruzione dell’impero Florio: dalle botteghe di spezie, alla produzione di Marsala, alle tonnare di Favignana, fino all’ingresso nel commercio marittimo. In piena età preunitaria, la Famiglia Florio diventa simbolo di innovazione, fatica e pragmatismo in un mondo pronto per il cambiamento. Accanto all’ascesa economica, Auci non manca di mostrare le contraddizioni del riscatto: Palermo li vede come “carrettieri” di umili origini e l’accettazione sociale resta sempre incerta.
“I leoni di Sicilia” è una saga che unisce grande storia e suggestione narrativa, mettendo al centro volti umani e cadenzando il racconto con i ritmi della storia. Stefania Auci dimostra capacità di equilibrare rigore documentario e potenza del racconto, offrendo al lettore una storia che emoziona e istruisce. È un romanzo che parla al cuore, ma anche alla curiosità storica, ed è destinato a restare nel patrimonio della narrativa italiana contemporanea.

Sin dalle prime pagine di L’unica regola è che non ci sono regole, il lettore percepisce di trovarsi di fronte a un testo che va oltre la mera cronaca aziendale. Reed Hastings, cofondatore e CEO di Netflix, insieme a Erin Meyer, docente alla INSEAD e autrice di studi sulla cultura d’impresa, mostrano come una delle realtà più innovative del pianeta abbia costruito la propria evoluzione non intorno a rigide procedure, ma a una filosofia potente: la libertà e la responsabilità. In questa narrazione il paradosso diventa pragmatismo: non è la mancanza di regole a generare caos, ma l’assenza di regole irrazionali e dannose, sostituite da principi condivisi.
La cultura di Netflix si fonda sul concetto di “talent density”: assumere pochissimo, ma quei pochi devono essere di altissimo livello. Hastings racconta che il destino di ogni dipendente si decide ogni anno, tramite il cosiddetto “keeper test”: se un manager non è disposto a battersi per trattenere una persona, allora è meglio lasciarla andare. È una modalità dura, ma trasparente, che mette al centro l’eccellenza come valore imprescindibile. In quest’ottica finisce per responsabilizzare ogni membro del team a dare il meglio, perché sapere che la performance è valutata costantemente motiva – e spaventa – allo stesso tempo.
Proprio l’elevata responsabilità individuale è possibile grazie alla pratica dell’open information: tutti i dati aziendali – finanziari, strategici, operativi – sono accessibili ai dipendenti. Non c’è più bisogno di un ufficio risorse controllore, c’è l’informazione diffusa come leva per sostenere decisioni autonome. Il capo, in Netflix, è qualcuno che spiega il contesto e poi si fida della squadra. Questa fiducia è reciproca: i dipendenti sanno di poter operare da adulti, senza dover chiedere permessi continui – dall’approvazione di spese alla gestione delle ferie, tutto è soggetto alla “act in Netflix’s best interest”, agire nell’interesse aziendale .
L’onestà radicale è un altro pilastro della cultura organizzativa di Netflix. La diffidenza verso linguaggi diplomatici è tradotta in feedback costanti e sinceri, senza paura di ferire, purché mosso da interesse per la crescita dell’altro. Hastings racconta come questa pratica – insegnata con formazione specifica – abbia portato a una comunicazione più autentica e al superamento del timore di criticare i colleghi, pur restando nel rispetto. Ed è proprio questo mix di accesso alle informazioni, libertà interpretativa e cultura organizzativa della feedback culture che rende possibili innovazioni rapide e strutturalmente radicali.
Non mancano episodi personali: Hastings descrive le difficoltà del fallimento del suo primo progetto, quando licenziò un terzo dei dipendenti e vide migliorare immediatamente l’engagement del gruppo rimasto. Da quell’esperienza nascono concetti come “non essere stupidi bastardi”, stringi la squadra su un set di regole implicite chiare. Un altro momento intenso è il confronto con il partner lontano e la gestione del feedback a livello personale: imparare a dire la verità anche nelle relazioni più delicate, perché crescere significa saper affrontare la verità .
Il testo alterna la voce di Hastings, che racconta in prima persona, alle analisi di Meyer, che con oltre duecento interviste offre una visione critica e comparativa, correggendo toni ossessivamente positivi o troppo idealistici. Insieme portano un equilibrio tra autoreflessione del fondatore e occhi esterni sulla cultura organizzativa.
Naturalmente, non è una ricetta per ogni azienda. Netflix è una realtà globale, R&D spinto, tecnologia e creatività, un ecosistema che funziona con le sue logiche e i suoi margini. Autori come Seth Godin ricordano che non tutte le organizzazioni possono permettersi questa libertà senza soffrire fratture. E Netflix stessa, citata dal Wall Street Journal, sta iniziando a rivedere la sua celebre policy del “libera ferie”: con un’organizzazione di 13.000 persone, qualche regola organizzativa è stata reintrodotta, spostando l’accento dalla libertà alla proprietà personale delle decisioni.
In definitiva, L’unica regola è che non ci sono regole è molto più di un libro aziendale. È un manifesto sul nuovo modo di intendere la cultura organizzativa, basato su fiducia radicale, onestà senza maschere, libertà personalizzata e responsabilità tangibile. È consigliato a CEO, manager, imprenditori, formatori HR e chiunque sia curioso di sapere cosa si può ottenere quando si smette di pensare in regole di controllo e si inizia a progettare un sistema dove le persone vengono trattate da adulti. Netflix è la frontiera, non la norma: il valore del testo sta nel far riflettere e interrogare le proprie convinzioni, spingendoci a reinventare – davvero – il futuro del lavoro.

“Generazione Z e lavoro” nasce dall’incontro tra due mondi spesso distanti: quello di un manager HR come Paolo Iacci e quello di un giuslavorista come Francesco Rotondi. Lungo poco più di cento pagine, il libro si avventura in un terreno complesso: l’inesorabile collisione tra una generazione digitale, flessibile e curiosa, e un apparato legislativo pensato decenni fa, sordo ai mutamenti rapidi cui i giovani devono adattarsi. I racconti e le riflessioni degli autori emergono in una prosa scorrevole e diretta, capace di rendere chiari fenomeni altrimenti nebulosi. Ne nasce un’opera agile e incisiva, idealmente divisa in due parti: la prima tenta di far comprendere chi sono i membri della Generazione Z, cosa li anima e in che misura le loro aspirazioni si discostino dai modelli di lavoro classici. La seconda prende in esame, con occhio critico, le normative esistenti – dalla legge sul lavoro ai contratti di somministrazione, dagli incentivi per l’apprendistato alle norme sui NEET – smontando l’idea che bastino atti normativi datati a garantire un’accoglienza efficace delle nuove leve.
I giovani nati tra il 1996 e 2010 sono descritti come tecnologicamente immersi, con una forte vocazione all’autonomia, al senso del progetto e alla ricerca di un equilibrio tra realizzazione professionale e benessere personale. Autosufficienti e intraprendenti, oggi cercano esperienze significative, più che la stabilità garantita da un contratto a tempo indeterminato. Per far emergere quel mix di impulsività, pragmatismo e senso civico, gli autori dialogano con dati, analisi e casi studio, ricostruendo la fisionomia di una generazione che lavora per obiettivi e valori, non per inquadramenti rigidi .
La critica si fa serrata quando il libro analizza la disciplina del lavoro in Italia: i contratti continuativi vengono descritti come strumenti pensati per lavoratori a vita, non per chi vive più fasi lavorative diverse nel corso dell’esistenza. Il sistema si mostra inadatto alla gig economy e alle carriere a zigzag. Rotondi, da giuslavorista, mette in luce limiti pratici e ideologici: l’assenza di visioni aperte e di strutture normative dinamiche genera un corto circuito tra domanda e offerta, penalizzando giovani e aziende che vorrebbero innovare.
Il valore della lettura si misura anche in ciò che il libro stimola nel lettore. Chi lo affronta dalle due sponde – giovani e manager – trova spunti concreti per costruire ponti: i primi imparano a conoscere i propri diritti, i meccanismi esistenti e le possibilità reali; i secondi possono interrogarsi su cosa significhi assumere oggi, quale contratto proporre, quale percorso formativo immaginare. Non viene proposta una retorica facile né soluzioni miracolose, bensì una chiamata a interrogarsi. Serve una “radicale flessibilità” che non risponda a pandemie normative, bensì a una nuova normalità professionale .
Pur conciso, il libro percepisce la profondità di un tema epocale: la generazione che non ha vissuto la tv analogica desidera un lavoro che abbia senso, ma va educata a navigare le regole spesso complesse. E va sostenuta dalle imprese, chiamate a superare il modello industriale per sposare una logica modulare, ibrida, contenente. L’opera riesce a trattenere l’attenzione anche grazie alle interviste, ai riferimenti legislativi chiari e al duplice sguardo che arricchisce senza appesantire.
Le critiche potenziali riguardano un’impostazione inevitabilmente schematica. Dodici moduli, trenta slide, una narrazione a due voci appaiono sufficienti per affrontare il tema, ma restano frammenti di una riflessione più ampia che meriterebbe un trattamento più strutturato in ottica di formazione. Nonostante questo limite, l’opera conserva una forte capacità orientativa. La sua utilità emerge proprio nella sintesi proposta: misura, concretezza e rigore rendono “Generazione Z e lavoro” non un trattato, ma una bussola. Consigliabile a manager, responsabili HR, docenti e giovani professionisti, il libro apre lo spazio a una domanda centrale: quali regole valga la pena riscrivere per costruire un futuro lavorativo sostenibile e coeso.