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The “great resignation”. Verso un nuovo umanesimo del lavoro.

Ogni fase della storia è attraversata da eventi che apportano un cambiamento nelle regole del gioco: la scoperta dell’America da parte di Colombo ha aperto nuove rotte commerciali, dando all’Europa uno slancio economico esponenziale, ma ha anche portato all’estinzione della maggior parte delle civiltà indigene presenti sul continente americano da secoli. La storia è costellata da tali esempi di cambiamento; il focus dell’articolo è posto proprio sul concetto di cambiamento e di come questo può celare sia infinite opportunità, quanto pericoli, se non gestito.

L’evento più impattante dell’ultimo decennio è stato la Pandemia da Covid-19, la quale ha avuto effetti su tutti i contesti in cui siamo immersi, passando da quello psico-sociale, giungendo a quello economico per poi traversare quello occupazionale.

Per arginare i contagi da Covid-19, i governi hanno imposto rigide misure quali lock down, isolamento sociale e, al fine di limitare le conseguenze nefaste sulle economie, aiuti sotto forma di immissioni di liquidità e modalità di lavoro definite smart, di cui tutti abbiamo fatto conoscenza. L’insieme delle conseguenze socio-psicologiche di una pandemia (incertezza, imprevedibilità del futuro per citarne alcuni) e degli interventi per controllarla, hanno portato alla messa in discussione del modello organizzativo tradizionale che dava forma al lavoro, modificando approcci, aspettative e modalità di gestione.

Prendendo in esame la prospettiva dei lavoratori, gli effetti della pandemia si sono dispiegati su ciò che questi si aspettano dal lavoro, sull’approccio verso le aziende e sull’importanza che ricopre la sfera lavorativa nell’insieme delle loro esistenze. Un fenomeno in particolare ha preso forma da questi mutamenti: mediaticamente definito “Great Resignation”, “Grandi Dimissioni”, consiste in un’onda apparentemente incontrollabile di turn-over volontario sul mercato del lavoro. Il fenomeno prima partito negli USA nel 2020, è poi giunto in Europa, compresa l’Italia.

Secondo una ricerca della Mcninsey&company, negli Stati Uniti, oltre diciannove milioni d’individui hanno abbandonato il proprio lavoro da aprile a settembre 2021, e altrettanti pensano di farlo.

Una logica apparentemente contro-intuitiva: a fronte di una situazione d’instabilità e incertezza sul futuro, perché gli individui dovrebbero essere disposti ad abbandonare la propria occupazione? Perché a cambiare è stato l’intero approccio al lavoro, non solo alcuni aspetti quali la retribuzione, bensì il valore attribuito ad esso, considerando l’importante spazio che occupa nella vita degli individui in termini soprattutto di tempo investitovi. Se pre-pandemia il lavoro era visto da molti unicamente come fonte di reddito, ponendo in secondo piano il benessere psico-fisico, adesso la valutazione è mutata, almeno per una buona fetta di persone. Secondo uno studio IBM (2021) su un campione di 14.000 individui, a pesare sulla scelta di abbandonare il lavoro e a cercare migliori opportunità vi sono: burn-out (principalmente sofferto dagli operatori sanitari), necessità di un lavoro più flessibile, ricerca di incarichi soddisfacenti, maggior equilibrio nella work-life-balance. Inoltre, il 40% degli intervistati afferma che l’etica, i valori e la cultura aziendale sono rilevanti nella scelta dell’occupazione, insieme alla possibilità di crescita verticale e orizzontale (36%).

Del campione intervistato il 33% appartiene alla Generazione Z ed il 25% sono Millennials. Sembra quindi opportuno affermare che questa rivoluzione nella visione del lavoro e di che cosa da esso si cerchi e voglia, non sia destinata a cedere il passo, considerando la sempre maggior presenza di queste due generazioni all’interno del mercato del lavoro. Al contempo è però doveroso ricordare che il fenomeno ha investito anche le altre classi di età di lavoratori, i quali potrebbero avere diverse esigenze a seconda del momento in cui si trovano (ad esempio un employee vicino alla pensione ricercherà più probabilmente una capitalizzazione delle proprie competenze e meno una attiva crescita verticale/orizzontale), rispetto a chi sul mercato del lavoro ci si è affacciato da poco. Le aziende si trovano quindi a dover gestire l’esigenze più tradizionali di alcuni employees già inseriti nel mercato del lavoro e le istanze innovative e più fluide della generazione Z e dei Millennials.

E in Italia?

Nel nostro paese il fenomeno riguarda maggiormente la fascia 26-35 anni. Secondo una ricerca “Osservatorio HR Innovation Practice” del Politecnico di Milano: “Il 45% degli occupati intervistati, dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a diciotto mesi”. Come già citato dalla ricerca sul campione americano, l’analisi si apre su un piano poco preso in considerazione: quello psico-sociale. Infatti, solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all’interno dell’organizzazione. Anche il fenomeno della Great Resignation non è esente da deviazioni di trend, infatti, circa il 26% dei dimissionari si pente della scelta presa.

Secondo una survey condotta dalla piattaforma di lavoro statunitense Joblist: “Circa un (ex) lavoratore su quattro non ridarebbe le dimissioni. La metà del campione lamenta di essersi trovato in un mercato del lavoro più difficile di quanto credesse” (Il fatto Quotidiano).

Di questi pentimenti, la maggior fetta riguarda gli insegnanti e ai dipendenti di alberghi e settore turistico. Solo il 14% degli operatori sanitari e l’8% degli impiegati amministrativi si dicono pentiti.

Come si spiega? Potremmo chiederci se alla base della scelta di dimettersi vi sia sempre un pensiero razionale. La capacità di razionalizzare i fattori che portano ad una scelta è indubbiamente una caratteristica importante del comportamento umano, il quale si differenza da quello “animale” caratterizzato dalla preponderanza dell’istinto. Secondo la Rational Choice Teory, l’attore, visto come un’unità strutturata e permanente di preferenze, attraverso una serie di passaggi giunge a delle scelte ponderate. Una visione dell’individuo lineare, privo di conflitti e contraddizioni. Alla luce degli effetti che la pandemia ha avuto sulle attese e sull’approccio degli individui al lavoro, appare difficile asserire l’esistenza assoluta di una struttura permanente di preferenze, che non mutano nel tempo. L’uomo non è un’isola, riceve input dagli ambienti in cui è inserito, formulando feedback sempre diversi a seconda del tempo “t” preso in considerazione, ricevendo e generando nuovi stimoli-reazioni in un ciclo continuo. Se teniamo in considerazione che la maggior parte del 26% del campione “pentiti”, fa riferimento a insegnati e dipendenti del settore turistico, la loro scelta può essere cosi riassunta: i primi avrebbero potuto scegliere di dimettersi a causa di una profonda tensione dovuta all’applicazione rapida e spesso caotica della Dad (didattica a distanza), la quale ha temporaneamente limitato le relazioni face-to-face, elemento essenziale dell’insegnamento, mentre per i dipendenti del settore turistico, la scelta potrebbe essere stata causata dalla profonda crisi di mobilità con la conseguente stagnazione del settore stesso.

Alla luce di ciò alcuni potrebbero aver scelto di lasciare il loro lavoro spinti da ragioni irrazionali appartenenti alla tensione del momento piuttosto che da una scala di preferenze strutturata. Presi dall’ansia dovuta dall’improvvisa incertezza sul futuro e altri fattori destabilizzanti, potrebbero essere caduti in quelle che sono chiamate “preferenze contro-adattive”, le quali si riassumono efficacemente nel detto “l’erba del vicino è sempre più verde”. Questa mutamento a-critico delle preferenze pone le dimissioni sotto una luce maggiormente positiva ma poco razionale, utile soltanto ad una diminuzione della tensione del momento, aumentando cosi la possibilità di pentirsi una volta che la scelta presa perde il velo di positività irrazionalmente messovi, mettendoli spesso di fronte all’inesistenza di un concreto progetto di cambiamento, oppure di fronte alle inevitabili difficoltà di un mercato del lavoro globale e competitivo. In breve: “L’erba del vicino non è sempre più verde della mia”.  

Rimane comunque un aspetto che accomuna tutti coloro che hanno deciso di dimettersi con o senza un reale progetto: aver mutato l’approccio con il quale ci si confronta con le aziende ed il significato che si vuole dare al lavoro come sfera che dà valore alla propria esistenza, ma che come prima cosa ha essa stessa un valore intrinseco.

“Il lavoro nobilita l’uomo” scriveva lo scienziato Charles Darwin, ma “solo se esso stesso rispecchia il valore che l’uomo dà al lavoro nella propria vita e diviene esso stesso fonte di valore”, aggiungo di mio pugno.

Le ricerche eseguite su entrambe le sponde dell’oceano fotografano una nuova specie di lavoratore; esso, è meno disposto a scendere a compromessi sul versante della qualità e del benessere a lavoro, ricerca una life-work balance più compatibile con le nuove esigenze psico-sociali post- pandemia: tempo da dedicare alle altre sfere della vita e un lavoro soddisfacente, che calzi con i propri valori, nel quale sentirsi realizzato e nel quale identificarsi. Possiamo spingerci a dire che con l’utilizzo dello smart-working (home-working) e quindi dello sbarco del lavoro nell’intimità delle persone, nelle loro case, quello che queste ultime cercano in termini di gestione vita-lavoro non sia un equilibrio, bensì una “work-life integration”. Lavoro e vita si mescolano, interagendo e contribuendo l’un l’altra al benessere psico-fisico complessivo del lavoratore senza la necessità di uno switch fra privato e lavoro. Questa nuova o forse (ri)scoperta consapevolezza, diffusa in una rilevante fetta dei lavoratori o potenziali lavoratori, da loro una capacità negoziale maggiore rispetto a prima. Aspetto che non può essere ignorato dalle aziende.

Alla luce dell’analisi di cui sopra passiamo ad analizzare il punto di vista degli employers chiedendoci: come possono le aziende riuscire a intercettare queste nuove richieste di attenzione alla persona, garantendosi un posto al sole in questa rinnovata fase di “umanesimo del lavoro”?

Si, la via maestra è la governabilità del fenomeno, non la sua interruzione. Pensarne un’interruzione sarebbe pretenzioso e controproducente. Di seguito alcune direttrici su cui muoversi per essere efficaci nel conservare i propri collaboratori:

  • Flexibility
  • Employee engagement
  • Sustainable work environment

Esse sono lo strumento in grado di governare l’alto tasso di turn-over presente sul mercato garantendo il perseguimento degli obiettivi aziendali e l’incontro con le esigenze dei collaboratori/dipendenti e infine, congiuntamente ad altri strumenti, anche di coloro che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro o sono alla ricerca di nuove opportunità.

Strumenti fondamentali e utili in mano agli imprenditori e in particolare in capo ai dipartimenti HR, Comunicazione e Marketing, i quali dovranno a parer mio lavorare sinergicamente per realizzare interventi efficaci, sono tutte quelle politiche, progetti e azioni aziendali che possiamo riassumere nell’espressione: retention strategies, strategie di conservazione/fidelizzazione.

Si, la via maestra è la governabilità del fenomeno, non la sua interruzione. Pensarne un’interruzione sarebbe pretenzioso e controproducente.

Di seguito alcune direttrici su cui muoversi per essere efficaci nel conservare i propri collaboratori:

  • Flexibility
  • Employee engagement
  • Sustainable work environment

Flaxibility

Flexibility: Come detto in precedenza, la rapida implementazione del lavoro agile ha messo in crisi i modelli organizzativi aziendali tradizionali che vedono la presenza fissa del collaboratore in ufficio come unica via per garantire la produttività e la “prosperità” aziendale. È divenuto insostenibile il paradigma: presenza-controllo = produttività.

In che modo la flessibilità dovrebbe essere una direttrice efficace per fidelizzare i collaboratori contribuendo alla diminuzione del turn-over? Essa in prima battuta fa venire alla mente la possibilità di gestirsi gli orari lavorativi in modo più autonomo. Per realizzare questa prima evoluzione occorre che le direzioni aziendali si lascino alle spalle la modalità di lavoro 8-17, che nell’applicazione di un lavoro smart risulta potenzialmente contro-producente, riducendo l’impegno dei collaboratori verso il proprio compito, in una sorta di disobbedienza come azione di contrasto. Obbligando a stare al PC dalle 8 alle 17 anche fuori dalle mura dell’azienda, applicando quindi una forma di controllo in un ambiente intimo e personale, non ci si può aspettare maggior impegno e dedizione. Il cartellino non può seguire il collaboratore che lavora smart, magari da casa. In questo caso il dubbio che sollevano molti imprenditori è legato alla produttività. Secondo alcuni di loro un dipendente non controllato troverà dei modi per lavorare meno o peggio.

Come si può garantire la produttività dei lavoratori fuori dall’ufficio, lontani dagli occhi dei manager?

L’applicazione del controllo fisico, per garantire la produttività, cela criticità gestionali in termini di fiducia e cooperazione nel raggiungimento dei risultati aziendali. Occorre uscire dalla dinamica “orario di ufficio-controllo-risultato” inserendo nell’operatività il concetto di “obiettivo”. Passare dal “lavoro per ore” al “lavoro per obiettivi” garantisce il rispetto della sfera personale del collaboratore, facendogli percepire fiducia da parte del manager e potenzialmente implementa la sua pro-attività nel raggiungimento dello stesso. Il focus dei manager si sposterebbe cosi dal  processo al risultato. 

Applicando congiuntamente la Flessibilità oraria e il lavoro per obiettivi dando quindi fiducia ai collaboratori, questi si sentirebbero maggiormente responsabilizzati. Il dipendente che vedrà affidatosi un obiettivo da raggiungere avendo la possibilità di gestirsi il processo di lavoro in autonomia, percependo le proprie skills, il proprio ruolo e compito più rilevanti per l’azienda, svilupperà verso essa un senso di appartenenza dando avvio ad un processo di identificazione con l’organizzazione, i suoi valori ed i suoi obiettivi. La Flessibilità garantisce anche maggior possibilità di equilibrio fra vita e lavoro; un lavoratore libero di lavorare da casa o da qualsiasi altro posto, con la facoltà di poter prestare attenzione e cura anche ad altri contesti della propria vita, sarà un lavoratore quasi certamente più produttivo, anche se in orari differenti da quelli di ufficio (magari invierà il lavoro svolto sulla casella postale aziendale alle tre del mattino).

“Flexibility: More goals, less controll”;

Tuttavia non sono sufficienti la flessibilità e il lavoro per obiettivi per mantenere il livello di produttività dei collaboratori stabile nel tempo, raggiungere gli obiettivi aziendali e garantire una life-job experience positiva.

È necessario inserire la seconda direttrice di azione: l’employee engagement.  Il coinvolgimento del collaboratore è il carburante che tiene viva la motivazione ad essere impegnati, responsabili e produttivi. Insomma, per non aver nessun motivo per cercare nuove opportunità di lavoro poiché proviamo una sorta di amore per l’azienda in cui lavoriamo.

Secondo “Osservatorio HR Innovation Practice” del politecnico di Milano, solo il 14% degli intervistati si sente coinvolto nei processi aziendali. Come si può creare coinvolgimento?  A mutare dovrebbe essere in primis il peso valoriale dato ai collaboratori e alle attività pensate per questi ultimi. Generalmente tutte le attività svolte per assumere personale o per formare/aggiornare quello presente, ricadono in voci di costo per l’azienda. Questo perché non viene considerato il reale valore che il personale apporta all’azienda, né tantomeno il ritorno che l’azienda può avere investendo (non spendendo) sul proprio personale. Le persone sono la vera risorsa che rende un’azienda competitiva. Occorre quindi garantire formazione continua e specializzata, senza temere che un collaboratore con più skills voglia poi cercare un lavoro maggiormente in linea con le sue nuove competenze; è possibile che accada, ma non certo. L’unica certezza è che un’azienda che non investe sulle persone, le perderà.

Ad oggi grazie al digitale sono infinite le possibilità per creare engagement. Per esempio: coinvolgere i collaboratori nella stesura di un progetto di welfare aziendale, vestito sull’incontro fra esigenze dei collaboratori e obiettivi aziendali, implementando poi un sistema di gestione digitale dello stesso, dove i collaboratori possono accedere facilmente ai servizi offerti, i quali non si limitano soltanto a quelli tradizionalmente presenti, quelli fiscali per esempio, ma che vadano a impattare positivamente a trecentosessanta gradi nella sfera di  vita del collaboratore, in linea con la richiesta di una potenziata work-life integration; né sono un esempio l’accesso agevolato a servizi per l’infanzia o per la cura di soggetti fragili.  Il welfare aziendale è solamente una delle azioni concrete per migliorare il coinvolgimento, la soddisfazione, la gratificazione e l’identificazione che questi provano verso l’azienda, con ovvi ritorni positivi per l’organizzazione.

Un’altra azione per garantire un buon coinvolgimento dei collaboratori potrebbe essere creare spazi fisici e virtuali che garantiscano lo scambio orizzontale fra collaboratori e fra collaboratori e manager, senza il timore di conseguenze negative per i primi. Questo può avvenire mediante lo sviluppo di blog autogestiti, forum, community su specifici topic o più di scambio generalista. Siamo arrivati alla terza direttrice: la sostenibilità dell’ambiente di lavoro. Parlare di ambiente di lavoro significa dare la giusta importanza all’incontro off-line, alla relazione fra le persone di un’azienda. Sono stati proprio i lock down e l’isolamento sociale a farci accorgere dell’importanza di questo aspetto: “People need people”.

Considerando i vantaggi del lavoro smart, i collaboratori torneranno a lavoro in azienda solo se l’ambiente di lavoro e il clima che si respira sarà diverso, più a misura d’uomo, lontano dalle praterie di scrivanie e sale riunioni del pre-pandemia. Anche se venissero obbligati a tornare con le gambe sotto la scrivania, questo avrà ripercussioni negative sulla loro produttività, coinvolgimento e infine sulla loro presenza in azienda, aumentando l’assenteismo e il turn-over.

La digitalizzazione non deve comportare il totale abbandono dei luoghi di lavoro fisici, ma occorre ripensarli. Come scrive Aristotele: “L’uomo è per natura un animale sociale”. Ripensare i luoghi di lavoro, andando oltre alle incasellate postazioni d’ufficio, creando spazi positivi e accoglienti ma soprattutto creando opportunità d’incontro in-door e out-door per il personale dell’azienda, potrebbe rafforzare la cultura aziendale e l’identificazione con l’organizzazione, generando un clima aziendale positivo diffuso, in grado di valicare le mura aziendali. Work-environment come network di connessioni umane prima che di competenze e ruoli. Un ambiente di lavoro co-disegnato con i collaboratori partendo proprio dalle loro esigenze, mediante ad esempio survey, al fine di promuovere crescita orizzontale. Un ponte fra on-line e off-line, necessario per la sopravvivenza, la crescita e il benessere delle aziende e delle persone che ne fanno parte.

Potremmo riassumere le tre direttrici sopra descritte in un’unica espressione: “Hybrid working”. Esso garantisce la commistione fra realtà online e offline, usando la potenzialità del digitale per permettere la miglior efficacia nell’incontro tra bisogni dei collaboratori e obiettivi di business.

Infine, occorre considerare la circolarità dei processi descritti sopra. Tener presente questa caratteristica ci permette di comprendere l’enorme potenziale che l’investimento sulle persone può avere per le aziende. Un collaboratore coinvolto, soddisfatto, gratificato dal proprio lavoro, ne parlerà all’esterno, off-line oppure on-line su piattaforme di recensioni e ricerca di jobs, GlassDoor e indeed per citarne alcuni. Questo lo trasformerà in un Brand-ambassador, contribuendo alle strategie di Employer Branding di cui l’azienda sicuramente si doterà.

In quest’ottica l’applicazione di “retention strategies” inserite in un più ampio progetto di implementazione di “Hybrid working” possono innescare un circolo virtuoso di coinvolgimento, soddisfazione, feedback esterno e infine incremento della capacità di attraction dell’azienda stessa.

Il miglior modo per governare gli effetti dovuti al cambiamento dell’approccio al lavoro, coglierne le opportunità e progettare una base per ammortizzare i cambiamenti futuri è investire nel capitale umano, trasformando il lavoro ibrido, da misura emergenziale a caratteristica strutturale, volta alla modernizzazione dei modelli organizzativi, alla sostenibilità psico-sociale, all’integrazione armonica fra vita e lavoro.

Investire nelle persone significa creare prevention ancor prima che retention, in un processo continuo al cui centro c’è la persona, nucleo e specchio della salute dell’organizzazione.

“People are the core”.  

Matteo C. Marraccini
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