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Manager 4.0 intervista a Luca Vignaga CEO di Marzotto LAB

Luca Vignaga, laurea in Giurisprudenza, già HR Director del gruppo Marzotto e Vice Presidente AIDP è stato HR director di NH Hotels e Jolly hotels. Nel 2013 ha partecipato alla pubblicazione “11 idee per l’Italia” firmando il contributo “Dal contratto collettivo al contratto personale: il nuovo mercato del lavoro italiano”, edita da Marsilio. Nel 2012 ha preso parte alla scrittura del volume “HR 2020 Storia e prospettive” edito da Guerini&Associati. Da luglio 2018 è CEO di Marzotto LAB. Sul suo profilo instagram pubblica le foto dei libri che legge.

Da HR a CEO è un passo importante. Com’è stato cambiare ruolo?

E’ stato un passaggio molto forte dal punto di vista professionale perché il ruolo del CEO va interpretato in un modo più allargato rispetto a quello dell’HR e questo è un cambiamento di prospettiva che ti catapulta fuori dalla zona di comfort. L’HR manager ha una mente più libera e meno indirizzata, il CEO invece è una funzione con ha una visione molto concentrata sulla strategia e sul day by day che per l’azienda significa fatturato e margine. Per chi come me è stato in aziende nazionali e multinazionali per 25 anni come HR si affida all’esperienza e alla conoscenza della materia per la soluzione delle problematiche interne, passare da HR a CEO significa reinterpretare con una visione più ampia anche il tuo vecchio mestiere. Le esperienze che ho fatto in precedenza sono sicuramente molto utili ma ora il ruolo è completamente diverso, devi cambiare pelle senza intaccare le tue dimensioni valoriali e tutto questo deve avvenire velocemente. Purtroppo non è un cambiamento automatico, non ti svegli al mattino ed è cambiato tutto, è un work in progress che si manifesta a velocità diverse, dopo più di un anno mi ritengo ancora un apprendista stregone. La metafora che considero più corretta per descrivere i diversi ruoli è quella dell’elicottero: il CEO guarda le cose dall’alto ma contemporaneamente scendere per focalizzare, devi aver ben chiaro il panorama che ti sta sotto, il mercato, prodotto e tutti gli strumenti che fanno girare gli elementi di cui l’azienda si nutre. E’ una visione che deve essere sempre aggiornata, come un elicottero devi avere la capacità di tirarti su e guardare tutto dall’alto ma anche scendere per focalizzare un preciso elemento. Credo che in questo ruolo la semplicità sia un gran valore, devi essere capace di fare sintesi per te stesso, per gli azionisti e per mandare messaggi molto chiari alla popolazione aziendale senza però distrarsi perché la sintesi non deve diventare semplificazione. In un contesto come questo la simbologia, la semiotica e la capacità di sintesi sono fondamentali. Il CEO deve essere multidisciplinare e multi level e questi diversi piani e livelli devi metterli in relazione. 

Quali sensibilità nuove ci sono riguardo le risorse umane?

Credo che in termini generali siamo ad un bivio. Le democrazie occidentali stanno vivendo un fenomeno di semplificazione dei messaggi rispetto ad un mondo che invece è molto complesso ed articolato e di fronte a questo la reazioni dell’uomo è la semplificazione. Credo che la stessa cosa stia accadendo anche nelle aziende e nel mondo HR che oggi è molto intermediato dalla tecnologia. Un esempio su tutti quello della valutazione del personale, siamo passati dalla valutazione della prestazione effettuato con un processo articolato ad un processo che ora si sta sfaldando nel continuous feedback intermediato grazie alla tecnologia. In passato mi è capitato di vedere la piattaforma formativa di una multinazionale che aveva un pensiero e un’articolazione che oggi non esistono più a causa del taglio dei costi ma anche per l’effetto esterno di semplificazione di cui parlavo prima, oggi di fatto quella piattaforma non è altro che un aggregatore di contenuti fatto pillole formative che rasentano la banalità. Siamo passati dalla formazione degli anni ‘90, generalizzata e non sartoriale, a quella dei primi anni del terzo millennio, personalizzata ma pesante, fatta di counseling, coaching, e-learning, outdoor training. Oggi siamo di fronte ad un nuovo passaggio, quello intermediato dalla tecnologia dove la formazione avviene non dalle persone ma attraverso i contenuti che saltano le culture territoriali perché pensati e costruiti dalle società della Silicon Valley a migliaia di chilometri di distanza. Se da un lato non c’è argine fisico o temporale che ne la impedisca la fruizione e la molteplicità di scelta, dall’altro assistiamo ad una grande semplificazione e banalizzazione. Siamo di fronte al paradosso della comunicazione disponibile sempre e comunque su più piattaforme ma senza la spinta ad approfondire.

Talento, upskilling, welfare, industry 4.0… cosa significano per te e come si tramutano in progetti utili per le imprese e, soprattutto, per le persone?

In merito ai significati ho l’abitudine di riferirmi sempre alle parole di Beccantini con cui concordo sul fatto che nel prossimo futuro avremo due dimensioni aziendali: le aziende del primo tipo, come Amazon e Google, per le quali il territorio è uno strumento e spostano il proprio headquarter in quegli stati in cui le imposte sono meno onerose; le aziende del secondo tipo, per le quali il territorio è un componente essenziale del prodotto. In questo tipo di aziende il prodotto è talmente collegato al territorio che ne è la radice. Partendo da questo approccio è chiaro che le parole citate assumono una connotazione molto diversa. Il welfare, i piani di stock option, il social housing, sono i modi che un’azienda globale ha per trattenere la persona in quel momento. Le aziende che fanno economia sul territorio devono invece dialogare con le persone che popolano il territorio attraverso le parole del territorio. 

Hai parlato delle aziende del territorio. Come possono reagire alle mutazioni del mercato globale?

Credo che le aziende debbano trovare relazioni che vanno oltre i distretti che sono stati e sono tuttora molto importanti ma non più sufficienti per affrontare la complessità del mercato di oggi. Se negli anni ‘50 e ‘60 sono stati il substrato in cui le aziende hanno gemmato trovando tra di loro i vasi comunicanti di filiera, oggi le aziende vivono una dimensione di business globale in cui trovano relazioni talmente forti tra di loro da non considerarsi competitor ma una vicinanza che esalta le virtù reciproche per affrontare il mercato.

Come si coniugherà il concetto di industria 4.0 con la gestione del personale?

In realtà l’uomo non vive la battaglia tra natura e tecnologia, la subisce da osservatore. La natura ha una storia ben più lunga e una potenza ben più grande delle tecnologia, tra questi due protagonisti l’uomo è già un elemento di fondo, quindi alla domanda “cosa significherà la tecnologia per l’uomo?” mi viene da dire che solo la tecnologia lo sa. Ormai la tecnologia è un cavallo lanciato che corre autonomamente rispetto all’uomo. Data questa evidenza osserviamo uno scenario difficile e preoccupante dipinto da tutta la letteratura distopica sull’argomento. Severino lo ha detto già da tempo che il potere della tecnologia è straordinario. Gunter Anders negli anni ‘50 scriveva che l’uomo era antiquato perché non adeguato a dominare il mondo. Per anni ho frequentato la silicon valley, si dava per certo che nel 2020 tutti avrebbero posseduto una macchina a conduzione autonoma, oggi sappiamo che non è così e questo mi dice che la tecnologia è sicuramente il driver del nostro mondo ma con tempi più lunghi di quelli previsti. Cosa succederà nel prossimo futuro nelle aziende e alle persone che vi lavorano? Nessuno lo sa veramente. 

Un’altro argomento gettonatissimo è quello della scuola che non prepara al lavoro. Vuoi dire qualcosa in merito?

Sinceramente penso che la scuola dovrebbe essere più dura di quanto già non lo sia. La scuola dovrebbe essere un percorso di guerra. I ragazzi dovrebbero studiare alacremente. La scuola dovrebbe dare sì il giusto spazio alla dimensione gioco ma dovrebbe essere spietata e non mi riferisco alla qualità dei contenuti riguardo ai quali non siamo secondi a nessuno, ma alla preparazione che dovrebbe essere ferrea. Il corpo docente dovrebbe essere più risoluto con i genitori ma credo che il problema non sia loro ma di chi li guida. Il Ministro dell’Istruzione sta al corpo docenti come il CEO sta ai dipendenti di un’azienda e come il CEO il Ministro dovrebbe tenere alto lo spirito degli insegnanti, invece spesso vengono bistrattati proprio dalle istituzioni che li dovrebbe proteggere e motivare. Se non diamo per scontato tutto questo, è chiaro che poi l’azienda sceglierà quei soggetti che dimostrano di avere una marcia in più dal punto di vista culturale e della determinazione la cui somma, a mio avviso, definisce il talento. 

Quali sono le caratteristiche di un manager di talento?

In selezione si dice che il talento e il non talento sono le cose più evidenti. Il talento, come dicevo prima, è composto da cultura e determinazione la cui sommatoria ha proporzioni diverse in ogni individuo e quindi si esprime in maniera diversa. Ad esempio, pur non sposando del tutto il modello di leadership di Marchionne, è innegabile che sia stato un uomo di grandissima cultura e determinazione, però morto di lavoro quindi non può essere il punto di riferimento di un manager. Luca de Meo, altro grande manager, ha anch’egli una cultura e una determinazione fuori dal comune ma che non si spinge agli stessi estremi di Marchionne ed interpreta il lavoro in maniera diversa. Il manager di talento è quell’individuo che esprime in maniera proporzionata queste caratteristiche.

Cosa sono per te l’engagement e l’employer branding e come si concretizza all’interno dell’azienda?

Ho sempre pensato che uno non può esistere uno senza l’altro. Engagement ed employer branding sono collegati in maniera indissolubile. Per questo ritengo che gli HR dovrebbero imparare molto dal marketing per costruire una brand identity fondata su valori, storia e prodotto che sono tutti ingredienti della ricetta necessaria per attrarre le persone. Se vi è un buon engagement del personale, l’employer branding viene da sé. 

Si parla sempre del dipendente del futuro che dovrà essere depositario di competenze di un certo tipo, ma quali sono le competenze che faranno davvero la differenza per un HR e dove si spingeranno le logiche HR del futuro?

Per rispondere devo per forza riprendere il ragionamento che abbiamo fatto in precedenza: dipende molto da dove ti collochi all’interno della dualità azienda virtuale – azienda del territorio. Comunque sia, l’HR dovrà per forza essere un attento osservatore, non troppo innamorato del business, né degli strumenti, che rischiano di ingessarne le scelte, e contemporaneamente deve far capire di essere necessario alla struttura. All’interno dell’azienda la funzione HR è fondamentale per definizione, per questo motivo chi lavora nelle risorse umane non deve preoccuparsi di dimostrare di essere importanti, ha però bisogno di definirsi attraverso il portato. 

So che sei un assiduo lettore. Quali sono i testi che consiglieresti di leggere per il 2020?

E’ vero, sono un accanito lettore. Normalmente leggo almeno cinque giornali al giorno e un paio di libri al mese. Proprio per questo, se dovessi consigliare alcune letture, credo che un mondo complesso come il nostro richieda di ritornare ad analizzare la costruzione mentale dell’essere umano. E’ quindi importante ritornare ai romanzi dell’800 Dostoevskij, Tolstoj, per citarne alcuni, nelle loro pagine si ritrovano le logiche dell’essere umano che nell’ultimo secolo si sono espresse in maniera diversa ma il piano su cui si sviluppano è sempre lo stesso. Personalmente trovo che alcuni romanzieri abbiano descritto le organizzazioni in modo straordinario, penso a Calvino e Levi e ancora Pasolini di cui bisognerebbe leggere tutto. Recentemente ho riletto Palomar, di Calvino, in cui si ritrovano intuizioni straordinarie. Quindi prima dei saggi che fanno la sintesi dell’uomo, consiglierei di leggere i romanzi che lo raccontano nella sua completezza. Più recenti sono “I principi del successo” di Ray Dalio e “Silicio” di Francesco Faggin che è stato l’inventore del touch screen. Anche queste sono letture estremamente interessanti. 

Piero Vigutto

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