Azzurra Rinaldi insegna Economia politica nell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza. Le sue conoscenze si concentrano prevalentemente negli ambiti dell’economia dello sviluppo e della cooperazione internazionale, avendo lavorato in numerosi progetti nazionali ed internazionali sui temi del microcredito e del gender mainstreaming con particolare attenzione ai paesi emergenti. Scrive per il sole 24 ore ed ha pubblicato diversi libri di economia.
Il covid ha rallentato paurosamente le attività economiche. Il nostro era già un paese in sofferenza perché tra i paesi avanzati era quello che stentava a riprendersi dalla crisi del 2008-2009, l’emergenza Covid ci ha affossati ancor di più. Stime ufficiali danno il PIL dell’Italia a -12.80% nel 2020. Chiamarla batosta è un eufemismo, pare invece che siamo di fronte ad una vera e propria debacle economica.
Recentemente è stato pubblicato un articolo che riportava cifre da capogiro: 37% delle donne lascia il lavoro perché non riesce a gestire contemporaneamente anche la propria vita privata. Questa è, a parere mio, una duplice perdita. Da un lato perdiamo competitività , competenze, forza lavoro in un momento molto critico. Dall’altro nel terzo millennio non siamo ancora riusciti ad uscire dalla logica donna-angelo del focolare. In un momento in cui è necessario esprimere queste competenze la trattiamo come una tematica sociale ma in realtà è una tematica di tipo economico. Dove vogliamo che vada il Paese nei prossimi 30 anni? Questa è la vera domanda. Già prima della crisi Covid lavorava una donna su due, se quasi il 40% delle donne che lavoravano se ne esce dal mercato portando con sé competenze ed esperienza e lo Stato non fa nulla è come mettere un campo una misura prociclica invece di una anticiclica con tutto quello che comporta. E’ come investire su delle persone e poi costringerle a rimanere a casa, il peggior investimento che uno Stato possa fare.
Facciamo un po’ di benchmark. L’Italia ha una situazione surreale, siamo nel G8 come PIL ma siamo settantaseiesimi in termini di gender equity un paradosso che mostra come PIL e gender gap non fanno di pari passo. Ad esempio il Ruanda è in nona posizione, la Namibia in dodicesima. Il benchmark è l’Islanda che da undici anni di fila è prima al mondo come equità di genere. Attenzione che Paesi simili non significa output simili: la media europea gender equity è 67.4 punti il nostro Paese è a 63 con dei punti di sofferenza nella rappresentanza politica e nei CDA. Se pensiamo a Paesi simili al nostro pensiamo alla Spagna che però ha 70 punti, la Francia è a 74.6 punti. Il PIL e la parità di genere non sono quindi collegati.
La questione fondamentale è sempre l’educazione sociale e l’educazione alla parità e in questo lo Stato dovrebbe essere in prima fila per supportare le famiglie. Per gli approfondimenti sull’argomento il libro suggerito da Azzurra Rinaldi è “L’atlante delle donne” edizioni ADD.
Piero Vigutto
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