I principi che ispiravano i leader fino alla fine degli anni 90 non sono più attuali. Se per decenni si è riflettuto a lungo, cercando (ed identificando) alcune caratteristiche della persona, predittive o comunque correlate con una “forte capacità di leadership” (per come si intendeva allora questo concetto), lo scenario odierno ci suggerisce con decisione che le vecchie teorie vanno messe fortemente in discussione.

Le grandi multinazionali che hanno la leadership assoluta sul mercato ci mostrano, ad esempio, una inattesa inversione di rotta: in aziende innovative come Google, Amazon, Facebook, il management è composto solo in piccola parte da laureati STEM (Lauree Scientifiche, Tecnologiche, Economiche e Matematiche). Queste figure, nei nuovi colossi dell’economia globale, sono scelte in base alle caratteristiche e agli stili di personalità, oltre che alle competenze tecnico-scientifiche, e più spesso destinate ai “compiti” prettamente legati alla formazione di provenienza, quindi programmazione, amministrazione, controllo di gestione, innovazione tecnologica. Tutto il resto del management ha una formazione e una forma mentis orientati allo sviluppo del progetto, e del clima aziendale.
Emerge immediatamente, dunque, una nuova lettura del concetto di leader e di leadership. Cosa intendiamo per leadership? La definizione recita “posizione di preminenza con funzione di guida in uno schieramento politico o culturale, o in una attività o impresa”.
Se ci soffermiamo sul contesto azienda, dobbiamo dettagliare un po’ meglio la definizione stessa: le aziende, infatti, per loro natura hanno un organigramma (ciò non corrisponde completamente a verità se parliamo di aziende teal); si potrebbe pensare (ed auspicare) che la leadership combaci necessariamente con le figure apicali. Questo è abbastanza vero, ma non è un assioma. La leadership è infatti un ruolo che non può essere conferito da una carica, ma che va riconosciuto dal gruppo di lavoro.
La definizione corretta di leadership aziendale, dunque, è “un processo sociale che porta un individuo, all’interno di un gruppo di lavoro, ad essere in grado di influenzare pensieri, atteggiamenti e comportamenti altrui senza applicare strumenti e dinamiche “di potere”.
Occorre a questo punto soffermarsi su due parole, troppo spesso confuse o utilizzate con poca attenzione, ma che contengono al loro interno una sfumatura fondamentale. Un leader autoritario ed un leader autorevole non sono la stessa cosa. Per la verità, il leader può essere soltanto autorevole; una persona autoritaria, nel contesto azienda, non è un leader vero, perché la posizione di “superiore” o “capo” viene esercitata, appunto, con dinamiche di potere.
Autoritario è infatti “chi impone con intransigente fermezza la propria volontà”. Le parole “impone” e “intransigente” descrivono forse un capo, un superiore, ma di certo non descrivono un leader, che invece deve essere autorevole: “che gode di stima e credito notevole, che ispira riverente fiducia”.
Oggi, un eccellente leader in azienda non è dunque chi dà ordini e controlla in modo verticale che vengano eseguiti, bensì è chi coordina, definisce gli obiettivi e lascia che il team ed i singoli membri lavorino in modo indipendente e al contempo collaborativo, avendo piena fiducia nel leader e sentendo di ricevere piena fiducia dal leader stesso. È quindi più una sorta di accompagnatore, un facilitatore, potrei usare il termine coach se non fosse che è un termine talmente abusato da risultare quasi inviso ai più.
Se le innumerevoli ricerche non concordano sull’efficacia di questo metodo rispetto ai risultati di un singolo obiettivo a breve termine (cioè, alcune ricerche hanno evidenziato che uno stile manageriale “impositivo” può portare a risultati più veloci su un obiettivo specifico e circoscritto), non c’è invece nessuna discordanza, nelle ricerche, nell’affermare che uno stile di leadership orientato al People Management, alla motivazione del personale, all’engagement, allo sviluppo del potenziale delle persone, rappresenti la chiave vincente per lo sviluppo, la crescita nei fatturati e la lunga “vita” del business. Lo dimostrano in modo inequivocabile tutte le più grandi aziende dell’attuale mercato globale, citate all’inizio, che hanno scelto un’inversione di tendenza rispetto alla vecchia scuola e che, visti i risultati, hanno avuto ragione.
A cosa è dovuto? Variabili fondamentali, a mio avviso, sono l’engagement e la talent retention. Cioè, se un’azienda non rappresenta per i suoi dipendenti un contesto motivante, soddisfacente, nel quale riconoscersi, non ci sarà engagement; se l’azienda non rappresenta uno spazio per esprimere ed accrescere il proprio talento, se non si vede riconosciuto il proprio contributo dal management, accadrà che tutti i collaboratori più motivati, più proattivi e con approccio “imprenditoriale”, (in sostanza, tutti i “talenti”) si sentiranno distanti, e si abbasserà il loro coinvolgimento, fino all’uscita dall’azienda verso contesti più costruttivi. L’azienda si ritroverà dunque ad affrontare un elevato turnover, perdendo di volta in volta i collaboratori più talentuosi, con tutte le conseguenze che questo porta sulla fluidità dei processi e sulla qualità dei servizi, e sul fatturato (fuoriuscita frequente di competenze che si orientano ad aziende possibilmente in concorrenza, costi e tempi di formazione per le nuove risorse, che a loro volta – con buona probabilità – sceglieranno presto di cambiare azienda, ripetendo il ciclo).
Piero Vigutto
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