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La leadership che (non) ci meritiamo

Leadership è una parola che davvero non mi piace. Abusata, poco conosciuta negli aspetti più profondi, negli anni è diventata argomento di convegni che non ti lasciano nulla, è stata spesso vittima inconsapevole di corsi che non restituiscono strumenti ma solo definizioni e modi di fare desueti più simili a quelli del capo che a quello del leader. Tutti, ma proprio tutti aprono le lezioni, gli incontri, i convegni con la definizione: “Leadership, dall’inglese leader ovvero colui che conduce e ship la nave…”. Mamma mia che noia! Ripetizione pedissequa di nozioni ascoltate senza un minimo approfondimento storico e psicologico, basta infatti pensare alla definizione letterale per capire che non ci siamo proprio:

  • il capitano della nave, ovvero colui che impartisce gli ordini, quindi che differenza c’è con il capo? Spesso, come ho detto, proprio nessuna, almeno nel significato e nel senso di queste definizioni che diventano poi atteggiamenti.
  • Il Capitano della nave, mi si risponde spesso, è colui che conosce la rotta. Bene, ora vallo a dire ai passeggeri della nave di Schettino!
  • Leader è colui che conduce, dal latino conducator ovvero il capo (sempre lì si casca),di cui ho già scritto. Anche l’abuso di questa definizione lascia interdetti. Colui che conduce? Le pecore si conducono, le persone si accompagnano.

Il fallimento del concetto di leadership lo vediamo dalle migliaia di copie di libri sull’argomento che vengono spesso venduti nelle sezioni delle librerie dedicate al one minute manager. Contenuti desueti, più aggressivi che inclusivi, in cui si esalta la cultura dell’assertività e quasi mai quelli dell’ascolto o del feedback, del raggiungimento dell’obiettivo individuale e per nulla quello di squadra. Trovarvi citata l’arte della guerra di Sun Tzu è un classico accostamento tanto classico quanto sbagliato, vecchio nei modi e nei contenuti, più galvanizzante che utile, la cui efficacia è limitata ed è presto dimostrabile: a tutti gli estimatori e spesso scarsi conoscitori del generale cinese, ricordo che non siamo in guerra e non non c’è un esercito da condurre. L’ambiente militare non ha nulla a che vedere con quello dell’azienda. Non nego che ci siano spunti interessanti ma purtroppo la riflessione più profonda sul significato delle scritture di Sun Tzu spesso lascia lo spazio a semplici pillole ad uso e consumo di chi preferisce dare ordini piuttosto che creare una relazione con i colleghi.

Che dire poi di chi spaccia la crescita personale con titoli altisonanti che richiamano il carattere delle “forze speciali” più o meno moderne. L’autore di questi simpatici manuali, con una evidente passione per lo stesso formato di copertina, descrive i contenuti del primo in termini machisti “In questo libro, scoprirai i segreti dell’autostima direttamente dai maestri di quest’arte: i guerrieri più temuti della storia, gli Spartani.” (cit.) mentre nel secondo “In questo libro, scoprirai le lezioni di disciplina direttamente dai maestri di quest’arte: le forze speciali più letali al mondo, i Navy Seals, l’elite della marina americana” (cit.). Caro autore, oltre packaging non sarebbe male cambiare la quarta di copertina altrimenti viene da pensare che i contenuti siano sempre gli stessi. I tratti della personalità spacciati come prodotto da banco, sempre uguali nella loro declinazione machista, contenuti ripetitivi che fanno parte di un mondo fatto di risposte semplici a domande complesse e che hanno prodotto e producono manager dediti al comando e controllo più che alla fiducia.

Fortunatamente non è sempre così e non lo è per tutti. Ci sono esempi, sempre più frequenti di manager che hanno scelto di essere diversi proprio nell’agire in maniera diversa, forse perché hanno letto alcune definizioni ben più interessanti di quelle dei Navy Seal o degli antichi Spartani. Il caso più eclatante è stato quello di Miroglio il cui AD ha messo in campo un governo ombra composto di persone che rappresentano le varie voci dell’azienda, dallo stagista al manager perché ha capito che l’ascolto è un plus che non dobbiamo lasciarci scappare. Una visione questa che è propria solo dei grandi manager non più radicati nella cultura degli anni ’90 ma già proiettati verso un futuro che hanno analizzato e compreso molto bene.

La gestione del personale è cambiata perché è cambiato il percepito del personale. E’ stato detto talmente tante volte che a ripeterlo ancora viene da scusarsi: il vecchio modo di gestire le persone è finito, si è aperta prepotentemente l’epoca della fiducia richiesta dalle persone, dove l’asso che ti puoi giocare nella partita della gestione delle persone non è più la posizione ma la gestione della relazione. Un’epoca in cui le persone chiedono di essere ascoltate e rifuggono dalle organizzazioni che non lo fanno. Un’epoca in cui il feedback va saputo dare e va saputo ricevere, dove la comunicazione non è più assertiva ma simmetrica. Per questo tipo di organizzazioni ci vuole una maturità che non appartiene al manager 3C (coordinamento, comando e controllo) ma da esso osteggiata perché non la sa gestire. Che non si confondano però questi contenuti con l’invito all’anarchia pura ma siano piuttosto l’invito al rispetto inteso nel suo significato originale (respicere, volgere lo sguardo dalla parte di qualcuno) e all’obbedienza anche in questo caso declinata “alla latina” (obbedire, da ob audire: ascoltare chi merita di essere ascoltato). La sfida di chi gestirà le persone è quindi quella dell’ascolto e rispetto sinonimi di maturità di un gruppo e, soprattutto, delle persone che lo compongono. Solo così possiamo creare quella condizione di condivisione (cum divido, divido con gli altri) che è il substrato su cui poggia la richiesta dell’extra mile o, in italiano, di un ulteriore sacrificio (sacer facere: fare qualcosa di sacro).

Se impariamo che il termine leadership descrive una serie di atteggiamenti e un contesto maturo in cui si sviluppa, allora potremo fare un bel passo avanti. La gestione delle persone è una cosa seria, fatta di  analisi dei tempi che cambiano, di capacità di coglierne il lato positivo delle situazioni, delle necessità delle persone. E’ un percorso di consapevolezza personale, di crescita costante, di discussioni (soprattutto con se stessi) e di confronto continuo e condiviso, di formazione con poche slide e con tanti strumenti di facilitazione, come quello che vediamo qui riportato, che accompagnano le persone verso una consapevolezza interiore ben più profonda delle frasi fatte dei guru e o di quelle riportate nei libri con le copertine tutte uguali. L’epoca del leader è tramontata lasciando spazio ai compagni con cui affrontare il viaggio.

Piero Vigutto

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