Il 2023 si apre con due neologismi: il quiet firing e quiet hiring. Ma queste parole descrivono davvero nuovi fenomeni oppure abbiamo di fronte la solita trita e ritrita “non novità”? Vediamo ora cosa sono e di cosa si tratta.
Dopo la great resignation e il quiet quitting, fenomeni che si sono sgonfiati con palloncini di elio sniffati per mesi da conferenzieri e pseudo giornalisti lasciandoli con la stessa voce ridicola di chi l’elio se lo respira per scherzo, è il turno di altri neologismi. Cosa significano lo vediamo subito..
Il quiet firing
Il quiet firing: l’insieme di comportamenti “tossici” messi in atto da quei manager che non riescono a fornire adeguatamente coaching, supporto e sviluppo di carriera, il che si traduce in una lenta “espulsione” delle persone dalle organizzazioni. Nella peggiore delle ipotesi, il quiet firing avviene quando i manager consentono ai loro collaboratori di vivere esperienze fortemente negative come strategia per “spremerli”. (cit. articolo di ManagerItalia). In pratica, come approfondisce l’articolo, si tratta di una serie di comportamenti agiti dal manager e che porterebbero i collaboratori ad allontanarsi volontariamente dall’azienda. Nella fattispecie riscontriamo:
- mancanza di feedback ai collaboratori: manager che non declinano gli obiettivi, non danno riscontri sui risultati, non esprimono gli elementi base della gestione del personale come il supporto ai collaboratori e le indicazioni sull’andamento del progetto;
- assenza di un investimento sulle persone: in questo caso i manager non darebbero il giusto spazio di sviluppo e crescita alle proprie persone;
- scarso riconoscimento individuale e personalizzato: in pratica troverebbe poco spazio la “pacca sulla spalla” a lavoro terminato;
Analizziamo meglio la questione
Analizziamo meglio la situazione. Primo, il neologismo: serviva definirlo quiet firing? Forse era troppo lungo dire “mancanza di engagement e commitment” e quindi il desiderio di sintesi di qualche giornalista, unitamente alla sua ricerca di titoli acchiappa visibilità, ha partorito il quiet firing. Che poi, a tradurlo letteralmente, significa “lento licenziamento dovuto al fatto che il capo non mi si fila per nulla”. Anche qui troppo lungo, lo ammetto e allora quiet firing sia anche se, suppongo, che questa definizione avrà una vita più breve rispetto al già dimenticato quiet quitting.
Secondo, il risultato delle tre azioni di cui si compone il quiet firing. Vado a descrivere una duplice situazione: spezzo una lancia a favore dei manager e provo a dare qualche indicazione in più. Spezzo la lancia: dicendo che spesso scarseggia il tempo e quello che c’è è già riempito con tutto quello che si può riempire (commesse, visite ai clienti, relazioni, fiere, analisi di prodotto, ecc.). Va però riflettuto su un dato interessante che l’articolo riporta ovvero che chi riceve un apprezzamento ha il 39% di probabilità in meno di cercare un altro lavoro (l’indagine è di Gallup, l’articolo originale lo trovate qui) che, in un mondo in cui la domanda fatica ad essere soddisfatta e la mancanza di manodopera è cronica, ridurre la possibilità di turnover significa evitare grandi grattacapi alla direzione e ridurre i costi occulti del reclutamento.
Qualche indicazione in più in merito al tempo da dedicare alle persone, quello c’è e si trova pure, ma solo se la questione è una priorità altrimenti il tempo viene dirottato su altro. In questo caso possiamo affermare che o manca la cultura aziendale del supporto al personale e quindi manca l’organizzazione del lavoro, oppure è un luogo che vive costantemente in emergenza e allora va creata una cultura di gruppo che tenga conto del rapporto umano. Mi spingo oltre ipotizzando un sistema di valutazione della performance che tenga conto del turnover del personale nel gruppo (asset, reparto, ufficio, fate voi) e del clima interno. Maggiore è il turnover, peggiore è il clima, minore sarà il premio di produzione e viceversa, minore è il turnover, migliore è il clima, maggiore sarà il tuo premio di produzione. Mi rendo conto che questa è una proposta grezza buttata lì che ha bisogno di essere limata ma le cui conseguenze potrebbero essere importanti per le imprese, sono altresì consapevole che una cultura aziendale non si impone attraverso premi e punizioni. Vale però la pena proporre per capire, voi come fareste? Qui sotto c’è uno spazio per i commenti, sbizzarritevi.
Il quiet hiring
Lasciamo il campo delle ipotesi sul quiet firing e spingiamoci oltre affrontando un’altra definizione: il quiet hiring. Sembra sia il fenomeno che dominerà gli Stati Uniti nel 2023 ma se è inesistente come la great resignation possiamo dormire sonni tranquilli. Anyway, direbbero in USA, vediamo cos’è mai questo fenomeno.
Quiet hiring, le assunzioni silenziose, è quel fenomeno che si verifica quando un’organizzazione acquisisce nuove competenze senza assumere effettivamente nuovi dipendenti. A volte, significa dare un incarico a professionisti esterni, altre usufruire di assunzioni a breve termine, altre ancora dare temporaneamente ai dipendenti nuovi ruoli o incarichi all’interno dell’organizzazione.
Ma per quale motivo un’azienda dovrebbe scegliere questa pratica? Beh diciamo che in tempi così incerti assumere personale in più potrebbe essere un rischio, tuttavia le competenze sono necessarie, vuoi per raggiungere l’obiettivo assegnato o per portare avanti un progetto ben definito. Per questi motivi si ricorre al quiet hiring. Un altro (pessimo) motivo per ricorrere al quiet hiring fa riferimento alla mancanza di talento interno e al costante bisogno di energie nuove. Le assunzioni “silenziose” di solito rientrano in una di queste categorie:
- necessità di ricoprire ruoli cruciali per un breve periodo;
- creare nuovi ruoli per aiutare l’azienda a crescere;
- affrontare un’esigenza acuta e immediata;
Anche in questo caso abbiamo bisogno di capire meglio
Come sappiamo dal terzo principio della termodinamica, ogni azione ha una reazione uguale e contraria. Non possiamo mescolare il mazzo e stupirci se i giocatori si ritrovano pessime carte in mano. Va bene, potrebbero avere fortuna ma è più probabile che sia il contrario. Vediamo cosa potrebbe accadere.
Primo. Ricoprire ruoli cruciali per un breve periodo: le situazioni sono due:
a. il ruolo cruciale si riferisce ad un singolo progetto e allora ci può stare che una o più persone vengano spostate per un breve periodo per poi ritornare al loro “posto”. Questo rientro però creerà la consapevolezza di aver fatto qualcosa di più grande rispetto alla mansione ordinaria e ritornare all’ordinario sapendo di poter fare di più getta nella frustrazione il collaboratore o lo costringe a guardare oltre i confini aziendali. Per non generare frustrazione o insoddisfazione, dobbiamo parlare ai collaboratori e spiegare loro bene che è uno spostamento transitorio. Questo servirà a smorzare un po’ l’insoddisfazione dell’ordinario ma dopo che avete lanciato la palla di neve lungo il declivio di una collina è solo una questione di tempo;
b. viene ricoperto ruolo cruciale per l’azienda ma solo temporaneamente. Provate a pensare se vi dessero un ruolo cruciale e poi ve lo togliessero perché siete stati bravi e avete raggiunto gli obiettivi. Credo sia comprensibile e giustificabile lo sgomento, la frustrazione e l’assenza di strategia della scelta. Qui non c’è discussione che tenga perché non si può spiegare e non si può spiegare perché non va proprio fatto.
Secondo. Affrontare un’esigenza acuta e immediata: può capitare che l’obiettivo non si possa raggiungere con le risorse interne ma solo se l’obiettivo è occasionale ed eccezionale. In questi casi è giustificabile l’incarico esterno o l’assunzione temporanea di risorse in grado di dare all’azienda le competenze che non si possiedono. Gli errori che si possono commettere in questa situazione sono quello di agire come descritto nel punto 1b ma anche quello più grave e meno considerato, quello di spostare definitivamente una persona da una mansione ad un’altra lasciando scoperta la posizione precedente. E’ come affermare che: “dov’eri prima non servivi a nulla, infatti nessuno tappa quel buco”. Una comunicazione non verbale pessima e disastrosa dalle conseguenze importanti.
Terzo. Creare nuove posizioni per aiutare l’azienda a crescere: voglio crescere, strutturarmi e quindi creo posizioni o, in alternativa, assegno alla stessa persona posizioni diverse. Errore madornale!
- Burocratizzare l’azienda non è sinonimo di crescita;
- Una persona e una poltrona va bene, una persona e tante poltrone per nulla: le mansioni devono essere chiare, creando più posizioni e assegnandole alla stessa persona rischiamo il conflitto di interesse (controllore e controllato sono la stessa persona) e lo stress con conseguente mancanza di performance. Gli esseri umani hanno dei limiti operativi che non vanno superati pena la perdita del collaboratore;
- Le competenze, quelle utili per l’azienda, spesso sono estremamente specifiche quindi possedute in maniera verticale. Il tuttologo sa un po’ di tutto e mai nulla nello specifico. A proposito di competenze verticali, non si cercavano i talenti?
Quarto. Mancanza di talenti quindi li cerco a tempo determinato: ma i talenti non erano quegli esseri mitologici rari da trovare? Se così è ricordiamoci che sono i talenti a scegliere l’azienda, non si catturano con un annuncio di lavoro ma si attraggono con le azioni quotidiane (employer branding e comunicazione esterna, welfare, ecc). Ricordiamoci anche che i talenti, a meno che non li incateniate nelle segrete dell’azienda, permangono per il tempo che è loro necessario ad esprimere le capacità che possiedono, va da sé che prima o poi se ne andranno. Sono quindi collaboratori a tempo determinato perché determinano da soli quanto resteranno, e spesso restano meno di quanto si era preventivato.
E’ bello scoprire nuovi neologismi, altrettanto bello capire che spesso di nuovo non hanno molto. Tuttavia aiutano a riflettere sul mondo del lavoro, sull’organizzazione aziendale e su quelli che possono essere errori grossolani di gestione del personale. Come dicevo, qui sotto c’è lo spazio per commentare, sbizzarritevi.
Piero Vigutto
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